Chi lo segue da prima che arrivasse la botta di gloria nazionalpopolare avrà notato una venatura esotica, nella romanità radiosa di Matteo Berrettini e in quell’aprirsi al prossimo con un sorriso che conquista.

Forse lo sguardo scuro e intenso, oppure il casco di capelli alla Toninho Cerezo, edizione Mondiali 1982 – un richiamo che oggi ha il suo perché, volgendo il pensiero a Wembley. O quelle dediche talora un po’ strampalate, scarabocchiate a pennarello sull’obiettivo della telecamera dopo una delle tante vittorie nel Tour: «Ciao vo’».

Che significa nonna ma in lingua brasiliana, che è la patria di Lucia, la nonna materna che di Matteo non si perde una partita benché tifi anche per Federer. Stavolta, diversamente dalla sfida a Wimbledon del 2019, vo’ non ha dovuto scegliere da che parte stare, perché il Roger ormai vicino al compleanno degli “anta” era stato disarmato nel match contro Hurkacz, il polacco che Berrettini ha dominato in semifinale a Londra.

Da Roma a Londra

Il primo finalista italiano nella storia di un torneo nato nel 1877, quando ancora si accendevano dispute sulla liceità o meno di una palla colpita al volo e non di rimbalzo, è un italianissimo frullato di culture e approcci alla vita in cui si ritrovano tratti del territorio, come la ricerca della cucina italiana anche in capo al mondo – perché la gricia va fatta con pasta lunga e crema di pecorino, sennò non vale – e quella leggerezza nel vivere il momento che altrove, più che in occidente, si tramanda fin da piccoli.

Il percorso di Berrettini dal Nuovo Salario, dove mamma gestiva un negozio di sigarette elettroniche, alla finale di Wimbledon è un cammino che pullula di scelte. Anzi, no: su tutto, origina da un potenziale raro, perché la tentazione di scivolare nella retorica del «se vuoi puoi, se lavori ottieni, se ci credi ce la fai» è un facile messaggio da populismo social o una scorciatoia per editorialisti a corto di idee e consapevolezza, ma non è mica vero.

Per qualcuno, dare tutto porta a un torneo di terza categoria in provincia. Per Berrettini – e finalmente non più per uno svizzero, spagnolo, tedesco, russo, serbo o statunitense che fosse, come ci eravamo abituati a osservare in tivù dal bianco e nero di Adriano Panatta in poi – tutto può letteralmente significare tutto quello che c’è da vincere nel mondo del tennis.

C’avevo judo

Tre anni di liceo scientifico pubblico, due da privatista, poi la decisione di provarci seriamente col professionismo, che è quella strana bestia per cui non puoi permetterti di vincere solo se stai bene, sei sereno, non hai dolorini assortiti e vieni ospitato in un posto confortevole. Anche perché, solitamente, accade esattamente l’opposto.

I Berrettini giravano in camper col padre, Luca, ex dirigente di Publitalia, e il resto della famiglia, il fratello minore, Jacopo, tennista pure lui (classe 1998, numero 292 Atp) che lo convinse a buttarsi nel tennis, lui che preferiva il judo; e mamma Claudia con, al seguito, un labrador da 50 chili. Altrimenti, gli toccava trotterellare solitario per tornei in posti dimenticati da Dio e coi soldi contati per fare la spesa.

«Se potevamo, ci piaceva andare nei tornei accessibili, in Germania, in Austria, stavamo insieme per una o due settimane. Adesso non si può più, ovviamente. Ricordo ancora le prime partite da professionista: le persi tutte. Ma avevo già deciso di non iscrivermi all’università. L’estate della maturità, giocai un torneo a Heraklion, in Grecia: sole, pioggia, ancora sole, un vento assurdo. Avranno interrotto il match sei o sette volte, c’era da mollare tutto e tornarsene a casa. Non lo feci. Sono esperienze che ho cercato di ricordare, andando avanti, perché avevo una sensazione di urgenza: volevo togliermi di lì il più presto possibile. Ricordo ancora quella volta in cui stavo giocando al Cairo contro un egiziano, nel 2012. Avevo male alla spalla, e poi vincere o perdere non avrebbe fatto la differenza più di tanto. Ero pure sotto nel punteggio. Pensai ai sacrifici dei miei genitori, ai soldi che spendevano rischiando di perderli e al tempo che mi stavano dedicando, e mi dissi: no, non posso mollare così. Quella partita la vinsi».

Il successo

Vinse quella e molte altre, di lì in poi, con un ritmo di crescita da stropicciarsi gli occhi: in poco più di un anno passò dai gironi infernali dei torneini ai tornei Atp, il primo successo a Gstaad 2018, un posto nei primi cento al mondo, l’esordio in Coppa Davis in India e l’incontro con una realtà difficile da accettare («A Calcutta c’era gente per strada che mangiava con le mani, gli operai lavoravano sulle tribune saldando i tubi senza ganci e senza maschera. L’India è una esperienza di vita, prima che sportiva, il mio coach Vincenzo Santopadre mi aveva avvertito. Nei tornei grossi sei servito e riverito, l’autista, gli alberghi belli, i ristoranti eleganti. Non è scontato e lo so, ti devi rendere conto della fortuna che hai»).

E poi la semifinale agli Us Open 2019, un assegno da 960.000 dollari («Che quando vedevo certi bonifici, come il primo di centomila dopo il Roland Garros del 2018, mi facevano impressione: c’è gente a cui servono anni per guadagnare così tanti soldi, io c’ero riuscito in due settimane. Quando sei in campo, però, non ci pensi»). E l’abbonamento ai top ten, uno status mantenuto ininterrottamente da quasi due anni, a dispetto degli infortuni e della pandemia.

Un’altra scelta di vita sportiva è figlia dell’occhio lungo di Vincenzo Santopadre, dopo che era stato proprio Adriano Panatta, adocchiato quel ragazzino lungo lungo sui campi del circolo tennis Aniene, ad avvicinarsi per una profezia (non dell’armadillo): «Un giorno venne e mi disse che avrei solo dovuto mettere un po’ di forza sopra e sotto, spalle e gambe, e poi sarebbe successo anche a me di servire a duecentoventi chilometri all’ora. Non ne ero convinto, ma aveva ragione. Servire bene fa risparmiare tanta energia, visto che non amo troppo correre. Negli highlight delle partite si vedono quasi sempre scambi lunghi, ma se vai a vedere le statistiche la gran parte dei punti si decide con i primi colpi». Santopadre ha spostato il perno del gioco da un concetto molto italiano vecchio stampo (metti la palla in campo e poi inizia a palleggiare col dritto, che non funziona manco più sulla terra battuta) a uno decisamente più moderno: il servizio non si prova cinque minuti alla fine dell’allenamento, ma subito e con la massima attenzione.

E gli ha pure «spento la radio», come ha raccontato Berrettini. Ha fatto in modo che non diventasse l’ennesimo tennista italiano – del passato, più che altro – che si lamentava del vento, della pioggia, del nastro preso dall’avversario o del fatto che il dritto non ne volesse sapere di entrare. Nessuna scusa, solo responsabilità.

Se tutto ciò, la presa di coscienza di essere un campione e la perseveranza nel costruirsi una carriera da stella, la battuta dirompente e il dritto che mena come una bastonata, il buon senso nel tirare innanzi e il rovescio con il taglio che l’erba rende pestifero, conditi da una sana la mentalità belligerante da Spartaco potranno bastare contro il tiranno del tennis, Novak Djokovic, è una domanda che non può avere risposte precostituite.

In campo con Djokovic

Il match perso a Parigi un mese fa suggerisce che sì, l’armatura di Matteo Berrettini è divenuta robusta a sufficienza per battersi anche con chi ha intenzione di sfidare e superare il non plausibile, i 20 Slam di Federer e Nadal, avendone già incassati 19. Djokovic sta ridefinendo standard già portati in orbita da due fenomeni e punta a quel filotto che si chiama Golden Slam, i quattro grandi tornei della stagione più il torneo olimpico a Tokyo. Sembra vivere in una dimensione parallela, Djokovic. Vola sul campo, rimanda di là ogni colpo, non si stanca, non mostra punti deboli, non manca una chance neanche per sbaglio. Ma che ci sia un ragazzone con un ramo di Dna brasiliano, di animo calcistico fiorentino, di cuore e casa romani, insomma, un ragazzo italiano che vuole giocarsela col Mostro, sul terreno sacro del tennis, è già così bello che vien da riderci su, di gusto e di gioia. Come ha sempre fatto lui.

 

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