Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.


Torniamo a Di Carlo. La memoria dei ruggenti anni Settanta è ancora viva quando nel 1980 è costretto a darsi alla latitanza. Su di lui ha messo gli occhi proprio Giovanni Falcone, su di lui indagano già da tempo prima i carabinieri e poi la polizia. Lo considerano, e non a torto, un pesce grosso. Sanno dei suoi rapporti altolocati che costeranno anche al principe Vanni Calvello una condanna per mafia. Ma sanno soprattutto che Franco Di Carlo ha una caratura internazionale, per via del legame consolidato con i Caruana-Cuntrera che, partiti da Siculiana, in provincia di Agrigento, hanno costruito un impero tra Italia, Canada, Venezuela e Gran Bretagna grazie al narcotraffico.

Fino al 1985, Franco Di Carlo sfugge alla cattura, incassando, stavolta per interesse personale, molte delle informazioni sulle quali ha costruito il proprio capitale di credibilità di fronte all’organizzazione. Ha spie dappertutto, «amici», li chiama lui, talpe che per calcolo, amicizia, sudditanza, paura gli offrono su un piatto d’argento la dritta giusta per condurre una comoda fuga tra Palermo, Roma e Londra.

Nel 1982, mentre a Palermo impazza la guerra di mafia che porterà i Corleonesi a imporre la propria dittatura su Cosa Nostra, Franco Di Carlo, nel pieno della propria latitanza, finisce anche fuori famiglia.

Prima di darmi alla latitanza avevo predisposto ogni cosa, ave vano già avanzato nei miei confronti la proposta di soggiorno obbligato, sapevo dalle mie fonti che prima o poi avrebbero spiccato un mandato di cattura. Avevo già immaginato di trasferirmi in Inghilterra, cosa che poi ho fatto.

Dentro Cosa Nostra ci si preparava alla guerra e io sapevo che non avrei potuto rimanere ai margini. Avrei dovuto uccidere o peggio ancora tradire amici per mandarli a morire nelle mani dei Corleonesi. Io stesso avrei rischiato la vita.

Un primo campanello di allarme suona quando lo accusa no di avere fatto la cresta su una partita di droga. Un’accusa montata ad arte, spiega, per nascondere la vera ragione – ossia il diniego opposto alla richiesta di consegnare Pasquale Cuntrera e Alfonso Caruana ai carnefici dei Corleonesi – nell’eventualità che si fosse deciso di eliminarlo. Per quell’accusa, viene collocato “in sonno”: non può avere contatti con altri uomini d’onore e meno che mai fare affari, ma se Riina e soci chiamano, deve correre.

Mentre Palermo è un campo di battaglia, Franco Di Carlo si muove grazie al salvacondotto che gli assicurano protezioni ad altissimo livello e fa ormai la spola con il Regno Unito, dove è arrivato la prima volta nel 1976.

Lo arrestano il 21 giugno del 1985. Lo accusano di traffico internazionale di droga per un valore di 150 miliardi di vecchie lire che viaggiava da Bangkok al Canada via Londra, dentro mobili orientali, ma per questo si è sempre protestato innocente. L’11 marzo del 1987, l’Old Bailey, ovvero la Corte centrale criminale, gli infligge un totale di venticinque anni per conspiracy, l’equivalente della nostra associazione per delinquere, e per traffico di droga. Sa che, secondo il diritto inglese, dovrà scontarne due terzi. Alla fine ne farà undici in Inghilterra, uno a Rebibbia e quattro ai domiciliari. I giornali inglesi, con lui, scoprono la mafia.

La sua lussuosa residenza di Horsell Rise, a Woking, nel Surrey, a 50 chilometri da Londra, i locali che ha comprato e gestito, finiscono sulle pagine dei principali quotidiani e settimanali. E così anche per l’elenco delle società che gestisce e i rapporti d’affari o di amicizia intrattenuti.

Compresi quelli con Girolamo Maria Fauci, detto “Jimmy”, un trafficante siciliano che vive a Londra e che per il suo matrimonio, il 19 aprile 1980, avrà al ricevimento anche Marcello Dell’Utri e il meglio della mafia siciliana.

I giornali chiamano Franco Di Carlo “godfather”, il padrino. Pubblicano la sua fotografia, che lo ritrae rilassato con una tazza di caffè nero lungo nella destra e il Rolex in bella evidenza. Un sorriso beffardo e gli occhiali da sole all’ultima moda a coprire gli occhi di ghiaccio. Per gli inglesi è il prototipo del mafioso siciliano che si è inserito bene in Gran Bretagna. Un uomo d’affari, dalla doppia vita, dalla facciata rispettabile, che gestisce pub e agenzie di viaggi, che gira su auto lussuose, abita in una villa sontuosa, e possiede una moltitudine di altri rifugi per incontri d’affari riservati e decine di nascondigli in cui sparire.

Ma niente è stato più lontano dalla sua vita di allora dell’idea del fuggiasco, costretto a rintanarsi in luoghi isolati e inaccessibili. Ha girato in lungo e in largo per l’Europa con un passaporto. Su quel documento c’era scritto il suo nome, ma luogo e data di nascita sono stati corretti ad arte.

Un dettaglio, un piccolo intervento che gli ha assicurato la possibilità di viaggiare indisturbato. A un processo gli chiedono per tre volte: era un documento falso? Lui, dopo aver negato, ribatte serafico: «Perché dalla Questura escono passaporti falsi?».

Una manina compiacente ha ritoccato la sua scheda, corretto luogo e data di nascita, imputando la variazione alla necessità di correggere un errore originario e Franco Di Carlo si è ritrovato tra le mani un salvacondotto senza neppure il fasti dio di doversi ricordare un’identità di comodo. 

Ha amici che lo proteggono e considerano i suoi guai con la giustizia poco meno di un inconveniente risolvibile, comunque aggirabile. Da latitante, si ritrova al fianco di prefetti e graduati dell’esercito, entra al Viminale per incontrare amici, va a colloquio con il generale Giuseppe Santovito, il capo piduista del Sismi che nell’elenco dei suoi protettori sta in cima alla lista.

I sospetti su di lui si accumulano, ma non bastano a fermarlo. E tra i suoi uomini, quella sicurezza ostentata accresce il mito. È un potente, uno che può permettersi il lusso di comparire al gate di un aeroporto per prendere il primo volo per la Gran Bretagna sotto lo sguardo attonito di chi lo conosce e sa che è ricercato.

Lo vedono fare il gesto di tirare fuori i documenti con disinvoltura a un controllo di polizia, quando un pezzo grosso garantisce per lui, sollevando l’agente dall’incombenza del controllo. Lo osservano scherzare con un poliziotto che, aperto il passaporto, si interroga se sia lui o un omonimo l’uomo che sta sulla lista dei catturandi. E lui, credibile, a blandirlo con un «so io perché è perplesso, non è la prima volta, sa. Molte volte mi scambiano per quel mio cugino alla lontana che mi ha procurato un sacco di guai, meglio stare alla larga da certa gente».

Partecipe del dramma, il poliziotto lascia correre e Franco Di Carlo può sorridere alla vita anche quella volta.

Ha sorriso meno quando a occuparsi di lui è stato un investigatore di razza come Giorgio Boris Giuliano. È un segugio che coniuga l’abilità di uomo d’azione al ragionamento sottile che lo porta a prevedere le mosse delle sue prede. Sa che quel boss non ancora ufficialmente latitante che viaggia da un Paese all’altro non è affatto un comprimario, scava e cerca tracce dei suoi collegamenti, in breve ricostruisce una buona fetta di suoi interessi equivoci e ne parla con Falcone. Ma Giuliano muore.

La mattina del 21 luglio del 1979 il boss corleonese Leoluca Bagarella deve sparargli alle spalle mentre sta pagando un caffè al bar sotto casa, per essere sicuro di farlo fuori senza rischi. Giuliano è un poliziotto vero, un incorruttibile. Ha una lucida intelligenza e un fiuto ineguagliabile. Per questo si è guadagnato il rispetto e la stima dell’Fbi. Sa che, se vuole capire come si sta evolvendo Cosa Nostra, è fuori dai confini della Sicilia che deve gettare il proprio sguardo. Lo fa indagando sulla morte del giornalista Mauro De Mauro e lo fa quando viene ucciso il boss di Riesi Peppe Di Cristina, il 30 maggio del 1978.

Esaminando alcuni assegni trovati in tasca alla vittima si imbatte in Domenico Balducci, “Memmo”, il cravattaro, l’usuraio romano di Campo de’ Fiori, nei fatti un manager del denaro sporco, amico del boss di Porta Nuova Pippo Calò e di Franco Di Carlo. Balducci è lo snodo attraverso il quale, con quarant’anni di anticipo su Mafia Capitale, si intuisce cosa è stata capace di fare la colonna romana della cupola siciliana: ha stretto accordi stabili con la Banda del la Magliana.

Ha a disposizione una batteria di sicari pronti all’uso e una rete di relazioni oliata con i soldi del narcotraffico, delle speculazioni edilizie e degli appalti. Detta legge e insegna un metodo ai Testaccini al vertice della mala della capitale. Trasforma una federazione criminale che ha assoldato borgatari e neri in una holding che sta dentro ai gangli economici del Paese: dalle imprese al Vaticano. Che ricicla miliardi di lire, in rete con l’internazionale del malaffare.

Giuliano arriva fino a una banca svizzera controllata da Michele Sindona, il banchiere della mafia che proprio nell’estate del 1979 inscena il suo finto rapimento. E che l’11 luglio, dieci giorni prima del delitto Giuliano, commissiona l’omicidio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, liquidatore del Banco Ambrosiano, trasformato nella cassaforte delle cosche. L’8 luglio, Giuliano scopre un covo caldo di Leoluca Bagarella, rintraccia lì la prova che i Corleonesi sono in affari con la droga.

Loro, i viddani, i campagnoli, hanno usato la droga come arma di discredito nei confronti dei nemici, giurano di non averla mai toccata quella porcheria, imputano ai palermitani di essersi fatti accecare dal mito della ricchezza facile, di essere dei rammolliti per troppi soldi.

E mentre tra uomini d’onore declinano il peana per la vecchia mafia, tutta ordine e rigore, tutta benemerenze e pace perpetua, si ingrassano con l’eroina e seminano morte e zizzania. La “tragedia”, il ricorso sistematico alla mistificazione, all’inganno, alla calunnia, è la loro arma segreta. Dopo Giuliano, in una Questura che non brilla per inventiva, a riprendere quelle indagini è il vicedirigente della squadra mobile Ninni Cassarà.

Nel 1985 vola fino in Inghilterra, d’intesa con Giovanni Falcone, quando Franco Di Carlo finisce in manette e le autorità potrebbero rimetterlo in libertà su cauzione. Si precipita a Scotland Yard a irrobustire il già ponderoso fascicolo sul conto del boss siciliano. Pochi mesi dopo, il 6 agosto del 1985, anche Ninni Cassarà finirà ucciso.

E Franco Di Carlo è sospettato, senza che mai tuttavia il dubbio si traducesse in un atto giudiziario, di avere avuto un ruolo da mandante anche per quel delitto. Raccontano che incrociando Cassarà negli uffici di polizia di Londra lo abbia accolto con un sorriso e un interrogativo sinistro: «Dottore, pure qua viene a cercarmi?».

Perfino l’allora ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro accrediterà quell’obliqua minaccia. Ma lui nega che il colloquio sia mai avvenuto e si scrolla di dosso ogni responsabilità per l’assassinio di Cassarà.

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