Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa una settimana questa nuova serie sarà dedicata al Festival di Trame 2025


Il 3 luglio di cinquant’anni fa, a Lamezia Terme, in pieno giorno, fu ucciso il giudice Francesco Ferlaino, Avvocato Generale dello Stato presso la procura di Catanzaro. I proiettili lo raggiunsero alla schiena davanti al portone della sua abitazione, sulla strada principale della città. Ferlaino era una figura apicale nel sistema giudiziario calabrese: la ‘ndrangheta non aveva mai colpito così in alto prima di allora e raramente lo avrebbe fatto dopo. Eppure la sua morte è rimasta senza colpevoli e senza memoria.

Tre membri del CSM, giunti a Lamezia dopo l’omicidio, raccolsero voci discordanti sull’accaduto, alcune strumentalmente poco lusinghiere per la vittima: evitare che Ferlaino diventasse eroe era il primo passo per alimentare quel senso di sfiducia che da tempo attraversava il sentire comune e far sì che lo smarrimento scivolasse nella rassegnazione e nell’oblio. Solo pochi erano disposti a interrogarsi su un sistema di potere criminale di tale portata da colpire così in alto le istituzioni.

All’inizio degli anni Settanta la ’ndrangheta era per tutti una mafia ”coppola e lupara”, figlia della povertà e della cultura onorifica dei ceti popolari. Una visione che la stessa criminalità sfruttava per nascondere la propria effettiva collocazione sociale che le consentiva di intrecciare relazioni col potere politico ed economico, gestire le risorse e accreditarsi come classe dirigente di fianco alle autorità legittime. Qualcosa di diverso quindi da un epifenomeno di arcaicità e arretratezza. Ma erano molti a giurare che lo sviluppo economico avrebbe debellato le cause sociali della mafia. Non è andata proprio così: mentre la politica nazionale si affannava a offrire facili letture e soluzioni errate, la ‘ndrangheta era già pronta a trarne il massimo vantaggio.

Erano gli anni dei sequestri di persona, da cui la ‘ndrangheta accumulava capitali da reinvestire; i finanziamenti statali per il centro siderurgico di Gioia Tauro e la SIR di Lamezia Terme, calati dall’alto senza interventi reali sul tessuto sociale e produttivo della regione, divennero il terreno fertile di pratiche clientelari e interessi criminali. Con questa realtà andò a scontrarsi Ferlaino. Le indagini per il suo omicidio si concentrarono su Pino Scriva un personaggio che sembrava incarnare perfettamente l’immaginario del bandito calabrese vendicativo. Il movente? Il rifiuto di Ferlaino di concedergli un trasferimento. Ma il coinvolgimento di Scriva, accusato di essere l’esecutore materiale, era la chiassosa superficie di scenari più inquietanti.

Nel 1974, Ferlaino conduceva indagini sul sequestro di Giuseppe Calì a Villa S. Giovanni. Il rapito era il fratello di Giovanni Calì, presidente del Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale di Reggio Calabria (ASI): con ogni probabilità l’obiettivo non era incassare un riscatto ma ottenere una fetta dell’economia “legale” messa in moto dai piani di industrializzazione. Le cosche non si accontentavano del racket, che imprenditori e amministratori mettevano apertamente in conto, ma volevano entrare a pieno titolo negli affari. D’altronde, All’inizio degli anni ‘70 si erano attrezzate con una struttura di potere incaricata di tenere relazioni con gli ambienti politici ed economici. In questo scenario torbido Giovanni Calì divenne ben presto per le cronache “Don Calì”, perché sospettato di gestire in maniera privatistica l’Asi assegnando appalti e subappalti a ditte poco trasparenti e senza gare pubbliche.

Ferlaino, indagando sul sequestro Calì aveva forse intravisto scenari che smentivano la storiella della mafia stracciona? Ciò che sappiamo è che uno dei presunti responsabili del rapimento, Antonio Scopelliti, gli rivelò qualcosa che indusse Ferlaino a dire al genero che qualcosa di grosso stava venendo fuori. Ma Scopelliti non volle mettere a verbale le sue dichiarazioni e poco dopo riuscì ad evadere, con altri pericolosi criminali, dal carcere di Lamezia. Due furono allora le mosse di Ferlaino: ordinò accertamenti patrimoniali sulle principali cosche del reggino e propose di lasciare le indagini per poter essere ascoltato come persona informata sui fatti. Non fece mai in tempo a riferire quanto aveva appreso. Quando poi Scopelliti venne riacciuffato, morì inaspettatamente in carcere per infarto all’età di 38 anni, poco prima di essere interrogato in merito all’omicidio del giudice lametino.

In poco tempo il mistero ha lasciato il posto al silenzio. Sulla vicenda sono tornati successivamente solo alcuni pentiti che allusivamente hanno dichiarato che Ferlaino si era opposto alla deriva della massoneria, che all’inizio degli anni ‘70 si stava accreditando come collegamento tra politici, affaristi e ‘ndrangheta. É proprio questo intreccio a rendere la memoria di questa storia tanto complessa quanto urgente e necessaria, perché ci spinge a fare i conti con le strutture di potere che da anni minano in profondità la vita civile, sociale e politica calabrese ed italiana.

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