La crisi della giustizia non riguarda solo la magistratura, ma passa anche attraverso i vertici dell’avvocatura. Anche in questo caso è una questione legata ai ruoli, anche se per gli avvocati lo scontro si sta svolgendo alla luce del sole e davanti al giudice civile.

Il caso trae origine dal limite dei due mandati previsto per legge come vincolo di eleggibilità negli organismi rappresentativi ed è deflagrato all’interno del Consiglio nazionale forense, l’organo istituzionale che rappresenta i 250mila avvocati italiani al ministero della Giustizia e che dunque siede a tutti i tavoli delle riforme, oltre che giudice d’appello nei procedimenti disciplinari dei legali. Dopo più di un anno di sospensione imposto prima da un provvedimento d’urgenza e poi da una sentenza di merito del tribunale civile di Roma, infatti, il presidente del Cnf Andrea Mascherin e altri sette componenti del consiglio, tutti al terzo mandato, sono rientrati nell’organo.

Il reintegro è stato possibile non per il ribaltamento nel merito della sentenza di primo grado, ma per ragioni procedurali. Su ricorso dei consiglieri, infatti, la Corte d’appello ha dichiarato che la sentenza di primo grado non è immediatamente esecutiva perché la pronuncia riguarda uno status, dunque è necessario aspettare che la decisione passi in giudicato.

Per questo, Mascherin e gli altri plurimandatari (uno solo dei nove si è dimesso alcuni mesi fa) hanno ripreso i loro posti: uno al vertice del Cnf, dopo che per un anno le sue funzioni erano state svolte dalla vicepresidente Maria Masi, gli altri nei rispettivi ruoli nell’ufficio di presidenza e nelle commissioni interne.

Il 26 maggio, inoltre, Mascherin in qualità di presidente reinsediato ha portato i saluti istituzionali a un convegno in materia di deontologia forense promosso dall’ordine degli avvocati di Catanzaro. Segno evidente della sua volontà di riprendere la sua presidenza da dove la aveva interrotta un anno fa, a cui avrebbe fatto seguito anche una mail a tutti i consiglieri del Cnf e ai consigli degli ordini.

Le proteste

La decisione di Mascherin e degli altri consiglieri di reinsediarsi ha suscitato immediate proteste tra gli avvocati, che si sono scatenati sul web, ma anche reazioni da parte di associazioni nazionali come l’Associazione nazionale forense (Anf), Movimento forense e l’Associazione italiana giovani avvocati (Aiga). «Il 23 e 24 luglio a Roma, al suo congresso straordinario, l’avvocatura, delegittimata nei suoi organi istituzionali, si appresta a parlare di riforma della giustizia», ha detto il segretario di Anf, Luigi Pansini. «Occorre giungere all’appuntamento spazzando via ogni incertezza, ogni interesse personalistico e ogni degenerazione del carrierismo politico forense».

Sulla stessa linea anche Antonino La Lumia e Antonio de Angelis, che in un comunicato congiunto di Mf e Aiga hanno ribadito la «necessità che l’Avvocatura tutta sia rispettosa della disciplina della propria vita istituzionale. Il chiarissimo dictum del tribunale non può che chiamare tutte le rappresentanze forensi a un definitivo e convinto gesto di responsabilità». Tradotto: sarebbe auspicabile che i plurimandatari si dimettano, per non tenere sotto scacco il Consiglio proprio in questa fase così delicata in cui l’avvocatura dovrebbe interfacciarsi con voce autorevole con il ministero della Giustizia e interloquire sulle riforme dell’ordinamento civile e penale.

Sul web le proteste si esprimono in toni molto più forti: da quattro giorni l’avvocato Giuseppe Caravita di Toritto è in sciopero della fame contro il reinsediamento dei vertici del Cnf. Nel gruppo Facebook Politica forense, tra i più seguiti dalla categoria, si discute in termini accesi di «desolazione» del Cnf e ci si chiede se «l’avvocatura può essere rappresentata in un momento simile da un Cnf decapitato e, comunque, sotto la spada di Damocle di una decisione che ne potrebbe definitivamente sancire l’ineleggibilità».

L’interrogativo, infatti, non riguarda tanto la legittimità formale al rientro dei consiglieri plurimandatari, quanto l’opportunità che le redini dell’organo di rappresentanza istituzionale dell’avvocatura, che ha sede presso il ministero della Giustizia, siano nelle mani di una presidenza su cui pende un giudizio di eleggibilità. A occhi esterni, un Cnf coi vertici sotto processo non è certamente in una posizione agevole. Sul fronte interno, il rischio è che potrebbero venire invalidate le loro decisioni, nel caso in cui prevalga la tesi giuridica che la loro sospensione è ancora valida.

Politicamente, tuttavia, la situazione è delicata: i consiglieri dichiarati ineleggibili, infatti, sono stati eletti con i voti del loro distretto e dunque – fintanto che non c’è una sentenza definitiva – la loro legittimazione verrebbe da lì. Quanto al loro tornare in carica, sarebbe la corte d’appello stessa a stabilire che loro sono tutt’ora consiglieri a tutti gli effetti, quindi il loro ritorno nelle funzioni non sarebbe discrezionale, ma un dovere. L’obiettivo, anche nel merito giuridico, sarebbe quindi quello di esercitare il loro diritto di difesa con tutti gli strumenti che l’ordinamento gli offre.

Il doppio mandato

Tuttavia, le norme e la giurisprudenza recente non sembrano lasciare margini di vittoria per i plurimandatari, che già in primo grado sono stati considerati ineleggibili. La riforma dell’ordinamento forense del 2012 e l’articolo 3 della legge del 2017 che disciplina l’elezione dei consigli degli ordini sono esplicite: «I consiglieri non possono essere eletti per più di due mandati consecutivi» e «la ricandidatura è possibile quando sia trascorso un numero di anni uguale agli anni nei quali si è svolto il precedente mandato». Sulla retroattività si è pronunciato anche il legislatore, che in un decreto legge del 2018 ha chiarito che l’articolo 3 va applicato tenendo conto «dei mandati espletati, anche solo in parte, prima della sua entrata in vigore, compresi quelli iniziati anteriormente all'entrata in vigore della legge 247».

I consiglieri del Cnf, tuttavia, hanno interpretato la norma come non retroattiva e comunque non applicabile all’elezione del Consiglio nazionale forense, perché il riferimento sarebbe solo ai consigli degli ordini. Sul punto si è espressa anche la Corte costituzionale, escludendo «che il divieto in questione violi il diritto di elettorato passivo degli iscritti» e considerando la previsione come espressione del principio di «un ragionevole bilanciamento con le esigenze di rinnovamento e di parità nell’accesso alle cariche forensi». Quanto all’estensibilità al Cnf del principio, le sezioni unite civili della Cassazione hanno recentemente ribadito la portata generale del principio di divieto di terzo mandato affermato dalla Corte costituzionale, «estensibile alla previsione di ineleggibilità relativa alle elezioni dei componenti del Consiglio nazionale forense». In questa direzione si è mosso il tribunale di Roma, che prima ha sospeso cautelarmente l’elezione di Mascherin e dei consiglieri, poi nel merito ha confermato la loro ineleggibilità che pure, secondo la corte d’appello, non è immediatamente esecutiva.

Difficile dunque immaginare che nel merito i giudici d’appello (e poi la Cassazione, se i consiglieri decideranno di proporre ulteriore ricorso) si discostino da questa interpretazione. Nell’attesa, tuttavia, i consiglieri intendono rimanere ai loro posti e resistere, continuando a sostenere l’irretroattività della norma nei loro confronti: il divieto di più di due mandati esiste, il punto però sarebbe il momento temporale da cui iniziare ad applicarlo.

Del resto, il regolamento interno del consiglio non prevede un meccanismo di sfiducia del presidente, ora protetto dall’ombrello della non esecutività della sentenza non definitiva. L’unica eventualità possibile sarebbe che tutti gli altri consiglieri si dimettessero, con conseguente commissariamento dell’ente da parte del ministero della Giustizia. In ogni caso, il presente dell’avvocatura sembra complicato quanto quello della magistratura, proprio nel momento più delicato delle riforme ordinamentali.

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