Dopo qualche anno di Bonafede e decenni di Palamara l’urgenza della palingenesi e l’attesa di sentire un nuovo linguaggio erano forti e le aspettative anche. Fortunatamente, almeno sotto il profilo dei principi (ed è già molto) l’audizione del ministro Cartabia in commissione giustizia non ha tradito le attese.

Sentir parlare di “tempi della giustizia come priorità” e di “compenetrazione tra giustizia ed economia” ha irrorato di linfa vitale chiunque abbia a cuore le sorti dello stato di diritto, anzi, della nazione.

Nel nostro ordinamento “la ragionevole durata del processo” è un principio quotidianamente vulnerato ed è presidiato solo dalla c.d. “legge Pinto”, che prevede un rimedio risarcitorio.

Al di là del fatto che la CEDU, all’art. 41, prevede tale rimedio solo come residuale, bisogna in concreto registrare come in realtà esso si sia rivelato totalmente inefficace, dannoso per l’economia statuale, oltre a rappresentare a sua volta un carico per la giustizia. Gli stessi processi attivati con la “legge Pinto” durano troppo e danno origine ad ulteriori richieste risarcitorie; inoltre è molto difficile l’aggressione dei beni dello Stato da parte degli attori che ottengono ragione.

Il guardasigilli ha inquadrato perfettamente il problema del tempo e lo ha declinato nella sua pienezza di significato guardando all’artt. 111 della Costituzione e dunque ad una ragionevole durata dei processi con attenzione alle garanzie ed al diritto di difesa. Perché è chiaro che un processo breve rischia di essere sommario.

Con questa priorità, la relazione è partita da quanto viene previsto nel recovery plan in materia di giustizia, è proseguita in materia di diritto civile e tributario, è approdata al penale, per giungere infine al governo della magistratura.

 Non si possono che salutare con favore i denari che serviranno, secondo i dettami del piano, a rinforzare il personale delle cancellerie, l’informatica, l’edilizia giudiziaria e penitenziaria, gli ausiliari del giudice, l’individuazione delle migliori prassi e la formazione dei capi degli uffici.

Su questi punti è il caso di proporre un’analisi che parta dall’esperienza quotidiana per renderli meno astratti e per mettere in guardia da alcune eventuali derive che si potrebbero registrare nella vita vera dei Tribunali.

Il caso Torino

I magistrati non mancano e, aiutati da quelli onorari, si può dire siano in media produttivi. Ma se molti e preparati sono gli ufficiali, molto carenti, sotto il profilo dei numeri, sono i soldati semplici, per così dire.

Si prendano ad esempio i dati della Procura di Torino come paradigma. Dal 1998, salvo piccoli recenti interventi, non si assume personale amministrativo. Tra il 2001 ed il 2018 si sono persi 148 addetti (73 trasferimenti, 60 pensionamenti, 15 per altra causa). “Quota cento” ha ulteriormente incrementato le uscite di alcune decine; uscite che diventeranno massive tra l’anno in corso ed il prossimo per via dell’età media molto elevata. A fronte di ciò, vi sono stati ingressi dovuti, per 28 posizioni a trasferimenti, per 4 ad assunzioni obbligatorie e per 12 a quelle disposte dal Ministro Orlando.

Di queste 12 persone però 6 hanno già abbandonato il campo per assistere i figli o i genitori anziani (c.d. “legge 104), altri perché hanno passato il concorso di accesso alla Magistratura, altri ancora perché hanno ottenuto di trasferirsi vicino a casa.

Senza contare che l’avvento dell’informatica invece di risolvere i problemi li ha aumentati perché, paradossalmente ha incrementato e non diminuito il cartaceo e, stante l’età media degli operatori e l’assenza di risorse per la loro formazione, non tutto il personale di cancelleria sa utilizzare al meglio le potenzialità della tecnologia. Si è arrivati a fascicoli di 300 faldoni e mancano le persone per movimentarli ed archiviarli, o hanno condizioni fisiche non adeguate per farlo.

Altro che giustizialismo vs garantismo, altro che separazione delle carriere, altro che amnistia, altro che obbligatorietà o meno dell’azione penale. La situazione è questa: una discussione tra grandi strateghi militari che, se si girano, scoprono di essere senza esercito. E fanno finta di non saperlo.

Perché in giustizia si è sempre investito meno del 1% del bilancio dello stato, perché per tornare agli addetti che vi erano in Procura a Torino nel ’98 basterebbero 950.000 Euro all’anno, nulla.

Molto bene se il piano europeo riuscirà a ricostruire l’esercito della giustizia. Magari poi qualche regoletta in materia lavoristica per il settore pubblico non guasterebbe, ma è altro tema.

L’Ufficio del processo

La previsione di un gruppo di ausiliari che sollevino il giudice da tutto ciò che non attiene alla decisione finale, dalle ricerche giurisprudenziali alla redazione di una bozza di provvedimento, non è una cattiva idea. L’attuale complessità del sistema non può essere gestita dal solo Magistrato.

Si tenga conto però che su questo strumento organizzativo, se sarà attuato, ci sarà da vigilare perché il carico di lavoro dei Tribunali può portare ad una delega che vada al di là dei meri aspetti prodromici e si spinga fino a lambire il giudizio finale, con conseguenze intuibili e che si tacciono per eleganza.

La valorizzazione delle prassi sviluppate negli uffici giudicati più virtuosi e la loro elevazione a regola generale è un altro elemento cui guardare con favore: la diffusione dei buoni metodi è auspicabile ed anche la concorrenza tra Tribunali può essere, come sempre e per ogni cosa, un sicuro fattore di crescita.

Ma anche su questo, conoscendo la realtà delle aule, ci vuole una certa attenzione ai potenziali aspetti critici. Spesso le cosiddette best practices si traducono in meri strumenti di burocratizzazione del rito.

Senza contare che le menzionate prassi supposte buone si sviluppano in contesti nei quali il Foro, o i suoi rappresentanti, privilegia il quieto vivere alla piena attuazione delle regole e delle garanzie. Non bisogna mai dimenticare che a governare il processo è il codice e gli avvocati esistono per ricordare allo Stato che deve rispettare le regole che si è dato. I protocolli condivisi sono spesso l”oppio dei Fori” e a volte lo scontro, perché non sempre si è sulla stessa barca, gioca un ruolo fondamentale per la creazione di un sistema giusto ed efficiente.

La formazione dei magistrati che ricoprono ruoli direttivi è un’altra buona idea. Insegnare gli aspetti organizzativi, che non necessariamente fanno parte del bagaglio culturale di un giudice, con valutazione seria dell’apprendimento, è senza dubbio un fatto positivo.

Appare tuttavia un po’ un palliativo se non si mette mano al mondo dei Palamaros, se non si incide a monte sulle scelte dei capi e se poi a formare e a valutare ci sarà nuovamente qualcuno espressione delle logiche che ben conosciamo e che sono recentemente divenute note ai più. Il rischio è quello di vedere percentuali di valutazioni positive che lambiscono il 100% come oggi accade.

Il diritto civile

Ottimo il richiamo alle ricadute economiche della lunghezza dei procedimenti, ricadute che certamente investono le parti, ma che hanno una portata generale essendo state valorizzate da autorevoli studi in almeno 3 punti di PIL (Cit. Mario Draghi). La lentezza delle decisioni è forse il principale disincentivo alla attrazione di capitali esteri ed è un fatto sul quale gli operatori economici pongono una straordinaria attenzione.

Un dato, già emerso da uno studio della Banca d’Italia e cristallizzato nella “Nota di stabilità finanziaria e vigilanza n. 3, Aprile 2016”, è che il prezzo dei crediti deteriorati sul mercato secondario è inversamente proporzionale ai tempi di recupero giudiziali. Volgarmente: più il Tribunale fa in fretta ad accertare il credito e ad eseguirlo, più quel credito vale.

Si stima che l’accorciamento di tali tempi anche di un solo anno accrescerebbe il prezzo di 4,6 punti percentuali. Se si applica tale percentuale al totale dei crediti deteriorati (immaginiamo quelli del prossimo futuro) si ottiene una cifra miliardaria, una finanziaria. Il fatto che il civile vellichi meno gli istinti politici (o primordiali) e che la “componente Banca D’Italia” del governo sia ben conscia da anni di questo problema, lascia ben sperare rispetto ad auspicabili riforme concrete.

Il diritto penale

Quanto al penale si percepisce immanente il solidissimo compendio culturale e di principi di cui il ministro dispone e questo nonostante traspaia che molte delle cose che avrebbe voluto dire si siano spente sulle sue labbra in ossequio ad un parlamento formato in gran parte dalle vedove di Bonafede o del perito nautico o di quelli, da destra, con il riflesso del buttar via la chiave.

Ella è stata costretta a dire, la politica è anche questo, che il disegno di legge “Bonafede” n. 2435 può rappresentare un buon punto di partenza.

Il ministro, con eleganza ed una punta (ne sono sicuro) di imbarazzo, ne ha valorizzato i pochi spunti positivi, sorvolando su quelli deteriori, e lo ha di molto edulcorato.

Si tratta in realtà di un testo, senza entrare nel merito per brevità, a tratti incostituzionale, che segna un tentativo di ritorno al rito inquisitorio e che tende alla burocratizzazione del processo. Ed è anche ipocrita quando all’articolo 12, a mente del quale le fasi processuali debbono essere contingentate da tempi prestabiliti, non si prevede alcuna sanzione processuale, ma solo quella disciplinare in caso di “negligenza inescusabile”.

Questo significa che sanzione non sarà mai e mai i termini saranno rispettati. Sarà sempre tutto scusabile, con il carico di lavoro che c’è, con la carenza di personale che c’è e via seguitando.

Ma il ministro ha subito recuperato ricordando un ordine del giorno della Camera che impegna il parlamento a puntuali interventi di riforma che tendano a garantire processi più brevi e nel rispetto del diritto di difesa e del dibattimento come luogo di elezione della dialettica processuale. Insomma, aria pura.

Si permetta infine di dire, con una punta di orgoglio, che la relazione, dalle risorse per la giustizia, agli strumenti deflattivi, alla ragionevole durata, ripercorre un documento ed una proposta dell’associazione “La Marianna”.

Non abbiamo certo la pretesa e la convinzione che il ministro ci abbia letti, per così dire, ma sentirla parlare, con le nostre stesse parole, della distinzione tra “tempo dell’oblio” (la prescrizione) e “tempo del processo” (la decadenza dell’azione penale) è stato per noi, che abbiamo contribuito a quei testi, motivo di soddisfazione. In allora, già alcuni anni orsono, scrivevamo infatti cosi:

“La prescrizione è il “tempo dell’oblio”, non è il “tempo del processo”.

Essa segna il momento dell’affievolirsi delle ragioni (retributive e preventive) che giustificano la pena. Non solo, essa garantisce anche il diritto di difesa poiché tanto maggiore è la distanza dai fatti, tanto più difficoltosa è la ricostruzione probatoria e la possibilità di ricercare prove a discarico.

Per tali ragioni essa non si dovrebbe riferire al tempo del processo, ma al periodo intercorrente tra il reato e l’attivazione della pretesa punitiva dello Stato. […] Diverso dalla prescrizione è l’istituto, de iure condendo, della decadenza dell’azione penale. Quest’ultima è obbligatoria, tuttavia il suo esercizio va bilanciato con un altro principio costituzionale (e sovranazionale): “la ragionevole durata”. […] in attuazione degli artt. 111 COST., 6 CEDU e 117 COST, si propone l’introduzione di un elemento nuovo che influisce sull’esercizio dell’azione penale: il tempo.

Un tempo decorso il quale essa si estingue poiché, se continuasse, lo farebbe in violazione di diritti fondamentali. […] Più razionale ed efficace prevedere che un processo, superati determinati termini perentori, si fermi”.

Questa è stata una delle possibili riforme che Cartabia ha evocato il 15 marzo 2021 in Commissione Giustizia, fosse la volta buona.

© Riproduzione riservata