Il governo procede per goffi tentativi nella gestione della crisi sanitaria e questo non può che essere un cattivo segnale, in vista della predisposizione delle riforme da attuare coi fondi europei. Nella ripartizione delle responsabilità, però, l’ex ministro della Funzione Pubblica del governo Ciampi e giudice emerito della Corte costituzionale Sabino Cassese individua una sola colpevole: «la classe politica al potere» che è incerta, schiava dei sondaggi e poco preparata nella gestione della cosa pubblica.

Sul fronte interno, lei ha scritto in un editoriale sul Correre della Sera che la confusione regna sovrana. Il governo ha commesso errori di strategia nella gestione della pandemia?

Quello iniziale, di non aver tenuto conto del dettato costituzionale per cui la profilassi internazionale spetta solo allo Stato. Quindi, la contraddizione: si lotta un fenomeno globale divisi in ventuno – sono venti le regioni, più lo Stato - per non parlare dei comuni. Non le pare una lotta impari? Poi, il secondo errore: avendo accettato di spartire il compito con le regioni, bisognava creare un comitato Stato - regioni che preparasse, decidesse, monitorasse l’applicazione, lavorando insieme. Si è proceduto alla carlona, prima lasciando da parte le regioni, poi scaricando le responsabilità sulle regioni, poi riprendendo al centro i compiti, con lunghe e improduttive consultazioni, ma senza spartire i dati di base, attizzando questa specie di lotta tra galli che stiamo vedendo: da ultimo, la Valle d’Aosta che si erge a repubblica indipendente.

Il conflitto è non solo tra maggioranza e opposizione, ma soprattutto tra Stato centrale e regioni. L’origine del problema è da far risalire alla riforma del titolo V della Costituzione, sul riparto di competenze?

Lasciamola in pace, la riforma. E’ stata una riforma sbagliata, ma non è la causa dei nostri conflitti quotidiani odierni. La critica va rivolta al modo in cui le norme costituzionali introdotte nel 2001 sono state interpretate e attuate.

Ma la pandemia può essere il segnale della necessità di una riforma costituzionale, magari che introduca la clausola di supremazia statale sul modello della Costituzione tedesca?

Nella Costituzione c’è già un articolo, il numero 120, che attribuisce  al governo il potere di sostituirsi a organi delle regioni nel caso di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica. Questo articolo richiede che la legge definisca le procedure, in modo da garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione. Secondo me, questo basta.

La pandemia ha mostrato i limiti soprattutto del Parlamento, che appare svuotato dal suo compito. E’ colpa di un sistema istituzionale non più adatto al presente oppure di chi dentro le istituzioni opera e che ne ha snaturato le prerogative?

Il sistema istituzionale funziona, non altrettanto può dirsi della classe politica che ne fa uso, lo interpreta, lo gestisce. Questa classe politica ha tre limiti. E’ incerta nel suo percorso: lei conosce obbiettivi e programmi dei partiti e del governo? Inoltre è preoccupata dei sondaggi: nessuno pare aver letto il libro del presidente americano John Fitzgerald Kennedy, nel quale si magnificava il coraggio dell’impopolarità. Infine è poco adatta a gestire, perchè sono pochi quelli che hanno esperienza di gestione di amministrazioni complesse.

Che giudizio dà, invece, dell’Europa come istituzione nella gestione della crisi?

Un giudizio molto positivo. Dinanzi a questa pandemia, ha proceduto con molto maggiore unitarietà delle regioni italiane, nonostante lingue, culture, istituzioni, politiche diverse.

Proprio dal fronte europeo arrivano molte sollecitazioni affinchè l’Italia proponga un piano di riforme per l’utilizzo del Recovery fund. Come bisognerebbe agire per non sperperare le risorse e, soprattutto, con quali obiettivi?

Le strade possibili sono due. Primo: concentrare tutti gli interventi in un organismo unico, come la Cassa per il mezzogiorno istituita da Alcide De Gasperi nel 1950 per gestire tutti gli interventi straordinari nel Sud. L’altra strada è quella delle dell’organizzazione diversificata. Ma non con i 300 esperti, ora ridotti a 90, scelti secondo un criterio astratto, bensì utilizzando uffici e strutture amministrative esistenti, esperti che sono già all’interno dello Stato, ed esperti esterni scelti, campo per campo, sul terreno.

Tra queste riforme, c’è quella della giustizia. Ci hanno provato tutti i governi prima di questo, senza risultati tangibili. I fondi europei potrebbero essere determinanti per riuscirci finalmente, oppure le risorse sono solo un elemento contingente?

Nel caso della giustizia il problema è più complesso e non bastano le risorse. Queste ultime possono servire alla digitalizzazione dei processi e delle attività delle procure. Ma anche la digitalizzazione ha un limite nella cultura digitale degli attuali magistrati. Tutto il resto, produttività, senso della giustizia, riservatezza delle procure, non dipende da riforme, ma dalla buona gestione, che purtroppo è in mano al Csm, un organo che ha rivelato tutti i suoi limiti negli ultimi tempi.

Lei ha definito la riforma della pubblica amministrazione quella «più impegnativa». Da dove si dovrebbe partire per riformare la macchina burocratica e, soprattutto, è realistico pensare di riuscirci?

Temo che con questa classe politica sia molto difficile affrontare questo problema. Per cominciare, bisognerebbe isolare 100 procedure, valutare tempi, costi e benefici della possibile accelerazione. Secondo passo: chiudere alcuni uffici e rafforzarne altri. L’uno e l’altro passo dovrebbero servire a rendere la pubblica amministrazione più rispondente ai bisogni della società e dell’economia.

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