Un tempo, nella mia città, Bari, chi per sue ragioni avesse dovuto misurarsi con la Giustizia, si recava in “Tribunale”. L’appuntamento fissato con il suo avvocato era in tribunale e a chiunque gli avesse chiesto, incontrandolo per la strada, dove stesse andando, gli avrebbe risposto che stava andando in “Tribunale”.

Così anche Arnold, il mugnaio.

Il tribunale come luogo dove c’è il giudice che rende giustizia. Il tribunale come punto cospicuo della città, come Agorà.

Oggi, a Bari (come, probabilmente, in altre città italiane) il “Tribunale” è diventato un non-luogo dal momento che la giustizia viene amministrata in molti luoghi spesso distanti tra loro e, inevitabilmente, ha perso gran parte della sua forza evocativa.

Il recupero della unicità del luogo dove la giustizia deve essere amministrata non è, dunque, solo una questione di efficienza ma anche e, soprattutto, culturale.

A Bari, come altrove, sono decenni che si discute di “Cittadella della Giustizia” orrendo nickname che evoca sensazioni claustrofobiche e respingenti ma (almeno a Bari) nonostante il continuo pressing delle autorità locali, dell’avvocatura e della magistratura (queste ultime, con angoli visuali spesso molto distanti tra loro) ancora non si vede la luce in fondo al tunnel e la Giustizia viene amministrata in luoghi perlopiù inadeguati quando non del tutto impropri.

Non solo per un fatto lessicale, preferisco parlare di nuovi (o rigenerati) ed innovativi palazzi di giustizia che siano realizzati secondo le indicazioni generali del programma Next Generation EU perché siano eco-sostenibili ed efficienti.

Non è possibile declinare qui tutti i presupposti sottesi a queste linee guida (anche perché sono facilmente intuibili) ma una sintesi è possibile tentare guardando alla situazione esistente.

Volontariamente esulo dalle ragioni per le quali non si riesce nel nostro Paese a progettare e realizzare nuovi palazzi di giustizia in tempi ragionevoli, per non ricadere nell’abusato stereotipo italiota della colpa degli “altri” perché quegli “altri”, infine, siamo noi.

Faccio volentieri a meno di riferirmi alle lamentazioni sulla carenza di risorse perché quali che siano le risorse, poche o tante, non sarebbero mai sufficienti a fronte dell’unico parametro che possa valutarne la congruità, che è quello della organizzazione. Di una efficiente organizzazione.

Mi sottraggo, così, alla facile, stantia ed improduttiva polemica, non “auspico” e provo a ragionare.

Il disequilibrio della giustizia

Detto che il processo deve essere celebrato alla presenza delle parti e dei loro difensori, che i giudici ed il personale di servizio devono poter svolgere il loro lavoro in spazi adeguati e salubri, che le udienze si devono tenere in aule idonee allo scopo, che gli avvocati, le parti e gli altri protagonisti del processo devono poter usufruire di ambiti dignitosi, l’efficienza del palazzo di giustizia non può che dipendere dalla organizzazione delle risorse disponibili, calibrata sulla domanda di giustizia.

Il binomio domanda di giustizia e risposta giudiziaria costituisce il pilastro della pacifica convivenza fra gli esseri umani e, dunque, non può essere limitato né compresso, tantomeno facendosi schermo di falsi problemi.

Questo binomio, tuttavia, è messo a repentaglio dalla vera incognita che mina l’equilibrio fra organizzazione delle risorse disponibili e domanda di giustizia: ciò che rende altamente improbabile il raggiungimento del risultato risiede, principalmente, nella proluvie normativa spesso di scadente qualità, che genera quantità abnormi di conflitti giudiziali.

La continua, perseverante, manomissione dei riti processuali è una delle cause principali del disequilibrio funzionale. Ma anche molte leggi di natura, per così dire, sostanziale, producono sovente importanti ricadute negative sul sistema per la loro scarsa chiarezza.

Poi ci sono alcune patologie che affliggono da tempo le categorie professionali che si muovono all’interno del comparto e che certamente non contribuiscono al miglioramento della situazione generale. Ma questo non è il luogo per affrontare funditus la questione.

La pandemia ci ha tolto molto ma ci ha costretti ad inseguire l’emergenza: non dovremmo commettere l’errore fatale di buttar via il bambino con l’acqua sporca e, quindi, certe esperienze potrebbero tornare utili per oliare meccanismi inutilmente ripetitivi e stantii, fonti primarie di inefficienza.

L’implementazione tecnologica, presidio degli anni a venire, deve essere razionalmente utilizzata poiché è innegabile che le innovazioni degli anni più recenti hanno consentito importanti miglioramenti della organizzazione.

L’interpretazione della legge

Ma la tecnologia non potrà mai sostituirsi al giudice e all’avvocato, come da qualche parte (incautamente) si sostiene, perché il diritto non può fare a meno della interpretazione e nessuna macchina, per quanto sofisticata, può sostituire secoli e secoli di cultura giuridica e sociale.

E qui, mi sia consentito di ricordare – a proposito della interpretazione della legge – le parole del primo presidente della Corte di Cassazione il quale, nella sua relazione sull’amministrazione della Giustizia tenuta in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario 2021, ha tenuto a sottolineare, tra l’altro, la fondamentale importanza della interpretazione della legge quale strumento del precetto costituzionale della certezza del diritto, espressione del principio di uguaglianza di tutti i cittadini.

Il buon governo del principio di diritto non comporta alcuna rinunzia alle garanzie processuali né ai principi del contraddittorio, ma contribuisce in maniera determinante a non considerare il tempo (della giustizia) come una variabile indipendente, restituendo al tempo (della giustizia) quella centralità fondamentale nella vita delle persone che da tempo, aggiungo, è del tutto smarrita e che costituisce il vero nodo gordiano, muto testimone della inefficienza della funzione giurisdizionale.

Ed ecco che la costruzione del palazzo di giustizia, una volta scrutinati e risolti i problemi che ne rendono impalpabili ed indecifrabili le sue dimensioni, prende forma e sostanza, con ciò realizzando quegli obbiettivi di cui ho detto, che sono propri della cultura giuridica del nostro Paese.

L’arte del costruire non è soltanto calce e sudore ma è, prima di ogni altra cosa, pensiero e programmazione del futuro che ci attende, perché possa costituire il caposaldo di una ordinata ed efficiente organizzazione.

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