Il tema della scrittura giuridica è tornato prepotentemente d’attualità con la riforma Cartabia del processo civile, in particolare dopo i decreti di attuazione, che tra le altre cose hanno dettato prescrizioni sui limiti dimensionali e le caratteristiche anche formali degli atti, sia per gli avvocati che per i giudici.

Di qui l’iniziativa della Scuola Superiore dell’Avvocatura – Fondazione del Consiglio Nazionale Forense - di attivare un primo corso di formazione, che ha visto l’inizio il 1 marzo in Roma.

Programmato per svolgersi in altre tre giornate, l’intento è in primo luogo quello di presentare le novità normative come un’opportunità, e non come una “punizione” per l’avvocatura, destinata comunque e certamente a dover affinare la propria preparazione per la tutela di quegli interessi del cliente e della stessa collettività che le sono affidati dall’ordinamento.

Nella riunione romana seguita a distanza da altri 250 professionisti in tutto il Paese, ho posto le basi per una riflessione, che parte da lontano, sulla necessità di un linguaggio chiaro e semplice.

L’immediata comprensibilità, intanto, degli elaborati dell’avvocato è infatti la chiave per un successo: riprendendo un giurista statunitense, si può condividere l’opinione che “un documento ben scritto significa semplicemente che la scrittura consente al documento di raggiungere lo scopo previsto dall’autore”; conclusione peraltro non diversa dall’insegnamento della retorica tradizionale e della nuova retorica novecentesca.

La considerazione stessa della figura dell’avvocato ha da lungo tempo risentito di quella sorta di handicap costituito da un linguaggio che Dostoevskij faceva descrivere da un personaggio di Delitto e castigo come “curialesco, burocratico...Non proprio sgrammaticato del tutto, ma neppure molto letterario; burocratico!” .

La constatazione della grave difficoltà della comprensione del linguaggio iniziatico proprio del sistema giustizia, ben nota a scrittori che sono stati presenti in parlamento, come Natalia Ginzburg, e a linguisti che hanno studiato a fondo il diritto, come Francesco Sabatini e Bice Mortara Garavelli, esige un rinnovamento della formazione forense anche sotto questo profilo. Rinnovamento peraltro già promosso dalla riforma ordinamentale del 2012, e successivamente precisato dalla disciplina per i corsi di formazione per l’accesso, che fanno un riferimento espresso alle “tecniche di redazione degli atti giudiziari in conformità al principio di sinteticità”, ed alla “teoria e pratica del linguaggio giuridico”.

Più che un rinnovamento potrebbe anzi dirsi di un ritorno alla migliore tradizione classica; non è forse necessario ricordare la brevitas di Cicerone (il cui significato è in realtà assai più complesso di quanto il

termine possa far intendere).

La Scuola Superiore, già dalla conduzione del rimpianto Alarico Mariani Marini, ha sempre dedicato importanti energie a questi temi, diffondendo sul territorio la peculiare attenzione per l’ argomentazione e la scrittura giuridiche.

Le tre leggi della scrittura

L’intervento si è concluso col richiamo alle “tre leggi della scrittura”, argutamente delineate da un grande italianista come Claudio Giunta, che si prestano efficacemente ad un’applicazione nell’ambito giuridico, a cominciare dalla “legge di Borg”.

Questa prima indicazione si traduce nel precetto: bisogna sempre impegnarsi. Il grande tennista rispondeva infatti al giornalista che gli aveva chiesto se ritenesse più impegnativo prepararsi per un match con l’uno o l’altro dei più famosi tennisti dell’epoca: «Mi impegna tutto, anche un set con mio nonno».

La seconda legge, quella del mafioso Silvio Dante – da un episodio della serie televisiva dei Sopranos – chiede semplicemente di scrivere chiaro; interpellato in un certo frangente da altro mafioso, che gira inutilmente intorno a una comunicazione presumibilmente sgradevole, Silvio risponde «Wanna say something? And say it then, Walt fucking Whitman, over here!», che si potrebbe tradurre per noi italiani, in “Ma vuoi dire qualcosa ? e allora dillo, maledetto Alessandro Manzoni che non sei altro!”.

Forse la più importante, per i giuristi pratici, è l’ultima legge, quella di Catone il censore, cui è attribuito il detto “Rem tene, verba sequentur”, che Giunta traduce per noi in questa indicazione: per scrivere bene di una cosa, bisogna averla studiata seriamente.

Il richiamo al retore latino ed alla sostanza della terza legge chiude, per così dire, il cerchio. Non solo infatti ricorda la tradizione culturale del giurista ed i principi fondamentali della sua formazione, ma collega direttamente i due momenti inscindibili dell’attività dell’avvocato (e del magistrato): l’argomentazione e la sua espressione, che dev’essere chiara e sintetica.

Oggi c’è – finalmente – una norma generale che sul punto non potrebbe essere più esplicita: l’art.121 riformato del codice di procedura civile, nella cui rubrica possiamo leggere oggi anche la frase “Chiarezza e sinteticità degli atti”, che oltre a costituire un criterio interpretativo è la prova del recepimento di un indirizzo affermatosi già da molti anni nella giurisprudenza della Cassazione (per la quale il dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali già fissato dall’ art.3, c.2, del Codice del processo Amministrativo esprime un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile”) e favorito senza riserve dalla dottrina.

D’altro lato, sono ingiustificati i timori per le conseguenze delle violazioni di quelle prescrizioni tecniche, visto che è espressamente esclusa dalla nuova normativa la previsione di sanzioni di inammissibilità o improcedibilità, mentre gli unici riflessi si potranno avere nella liquidazione delle spese (in diversi casi, forse, non senza ragione…).

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