Orazio è entrato in carcere quando aveva poco più di vent’anni. Da ragazzino viveva in un paese della Sicilia, buttanissima Sicilia, terra di sole e di sangue, di miseria e nobiltà, terra di sudore, di passioni urlate, di virtù mistificate, terra di onore.

A casa erano in tanti, avevano il necessario, e insieme ai suoi fratelli Orazio animava i vicoli stretti, fatti di polvere e umori, attraversava le campagne incolte, scrollava le ristoppie per raccogliere lumache, spigolava nei campi dei contadini facendo a gara a chi ricavava da quelle scorribande il più ricco raccolto.

 Era giovane Orazio, poco più che adolescente, quando capí che suo fratello si era cacciato in un brutto guaio. Insieme a un gruppo di giovani aveva sfidato la mafia del posto, aveva violato ogni codice di silenzio, era entrato in guerra, una guerra impari condotta da un pugno di uomini, una guerra armata, cattiva e senza esclusione di colpi, sanguinosa e orribile.

Orazio si ritrovò arruolato senza comprendere, per paura, per proteggere il fratello, per difendersi, per mancanza di aiuto e di strumenti sociali a cui aggrapparsi, per incapacità di altro, per debolezza, per idiozia, perché gli sembrava l’unica scelta possibile.  Ormai era un assassino.

Scorreva in armi le campagne per uccidere e per non essere ucciso. Scappare e ferire e cercare la morte dei suoi nemici senza neppure conoscerli, solo perché erano dall’altra parte, perché il loro nome era su una lista. Ma accade qualcosa un giorno che gli spezza il respiro, che cambia la sua rotta, una sveglia dolorosa più di una lama.

«Perchè?»

È al cospetto di una delle sue vittime, un uomo anziano che prima di essere colpito a morte ha il tempo di chiedergli: perché? Quella parola piccola, immediata e lucida ha il potere di annichilirlo. Orazio porta a termine il suo mandato omicida e poi piange. Piange perché non conosce una risposta che abbia un senso e che gli permetta di perdonarsi. Finalmente lo arrestano.

Finalmente, sì. Perché Orazio scopre in carcere la libertà di non uccidere anche se lo sbattono in isolamento e poi al 41 bis, nel regime della assoluta abulia, del silenzio, del buio, della mancanza di amore, della sconfitta dei sensi.

Orazio sta 22 anni da solo. Legge molto, piange, prega. Perde il contatto con la realtà, con un mondo che cambia mentre lui è chiuso, non vede niente, non conosce niente. Cade in una depressione che lo divora e lo spegne.

Non va più nemmeno all’aria, o a quella sua asfittica approssimazione, sotto un cielo grigliato, senza colore. Rifiuta il contatto con i compagni di detenzione. Si perde in una solitudine assoluta, senza conforto.

La sua famiglia non smette di tenerlo per mano, di accompagnarlo, di occuparsi di lui, sua sorella si fa carico di tutte le sue amarezze ma l’aria è finita in quel mondo senza e Orazio non ce la fa più. La speranza sembra un cimelio crudele che non si può permettere quando arriva la revoca di quel maledetto regime. Il mondo del carcere in alta sorveglianza appare di nuovo reale, aperto, vivo.

Ci sono persone che parlano con Orazio, che lo invogliano a raccontarsi, a studiare, a essere un uomo, un uomo che ha addosso un portato atroce di esperienza ma che in 22 anni di abbandono alla solitudine della propria coscienza, alla notte dell’anima, alla durezza del niente ha strappato ogni scheggia dal suo cuore e invoca a gran voce, con tutto sé stesso di essere riconosciuto come persona.

Nei lunghi anni della sua pena suo fratello è morto divorato dalla malattia. Quel passato orribile è una ferita che sanguina e sanguina ma Orazio è un altro uomo oggi e vuole dimostrarlo disperatamente.

Non essere padre

Ha un figlio che non ha visto crescere, una donna che ha amato come poteva, come sapeva, che lo ha tirato su da sola. Pezzi della sua breve vita libera sgretolati dalle sue scelte assurde, dissennate, terribili. La sua compagna si spegne lentamente per un tumore. Orazio ottiene il permesso di andare a trovarla per dirle che il suo amore è fermo anche se non è stato un marito, anche se non è stato un padre, e che non deve avere paura perché ora sa amare, con la profondità del dolore e della responsabilità, con la compiutezza di chi ha saputo uscire dal suo inferno, con la forza di chi si è rialzato da un pozzo profondissimo, con il coraggio di chi ha rischiato di perdere tutto per sempre ed è pronto a tutto per riconquistarlo. Gli anni scorrono.

Sono anni di luce e buio. Orazio studia e apre tutte le porte della sua anima a persone che incontra sul suo cammino recluso, che gli tendono la mano, che comprendono la fatica del suo percorso ancora in salita, tutto in salita e con un grosso masso sulle spalle, che gli vogliono bene, che si fidano di lui, di lui che era un boss, un assassino spietato, che sparava e fuggiva, che si nascondeva e scappava, che aveva chiuso fuori dal petto ogni umanità, di lui che però aveva avuto la forza spietata di guardarsi dentro e di lasciarsi attraversare dall’orrore di sé stesso.

L’ultimo saluto alla madre

Anche la mamma di Orazio sta molto male. È molto anziana e la sua vita è stata difficile, ruvida, crudele. Ancora una volta il giudice regala a Orazio la dolcezza di un ultimo saluto.

È una figura importante per Orazio il suo giudice di sorveglianza. È una donna elegante che appare austera ma sa lasciarsi andare al sorriso e ad una soave mitezza. È un vero giudice con il cuore aperto e la ferma convinzione che nessun uomo è da buttare, che in ognuno c’è  una possibilità di cambiare, di rivoluzionare la propria strada, di ritrovarsi, di rinnovarsi e che c’è  un momento in cui anche all’anima più sfinita basta afferrare una mano tesa per salvarsi.

Orazio le affida il lutto della sua vita, la sua sconfitta, la sua possibilità di sperare e lei la afferra con la forza di una madre. Non gli fa sconti, ma gli dà la certezza che la sua mano è tesa e pronta a sostenerlo.

Orazio recupera il suo rapporto con suo figlio. Ormai è grande e ha disegnato le linee della sua vita ma ritrovare il padre lo ha reso felice, più solido, più sereno.

Dopo trent’anni di carcere Orazio si sente libero e vuole toccare il mondo, fuori. Guardare un cielo senza quadretti, camminare per strada, andare al mare, uno spazio per distendere lo sguardo all’infinito, senza limiti. Il suo cuore è colmo di gratitudine per le persone che hanno raccolto il suo grido di aiuto, che hanno cullato le sue fragilità, che sono, che saranno accanto a lui.

Il primo permesso

Il giudice gli concede il primo permesso. Dodici ore dopo trent’anni. Ed eccolo. Il carcere è alle sue spalle. Davanti il caos delle auto, la polvere e il rumore, le insegne, i led luminosi, colori che ha trovato solo in TV, la vista si sperde, gli odori cambiano di continuo.

Felicità e terrore lo pervadono davanti a quell’indefinito che non ha muri, che non ha sbarre, fuori dal suo universo asfittico e protetto. Le gambe tremano e ogni passo è una conquista di autonomia. Come un bambino conosce le cose una ad una e ne cerca il senso, le misura, le affronta. E poi, all’improvviso, un artista di strada. Un ragazzo su uno sgabello con la sua chitarra. Suona una musica dolce, antica.

È una canzone che Orazio conosce, che racconta di lui, di quel giovane che poteva essere e che non è stato, che ha note di memoria e di struggente malinconia. Orazio si ferma e ascolta e lascia che le lacrime scorrano, mute, perfette, libere e ha la sensazione che quel giovane oggi possa riprendere il cammino.

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