Nella sua lunga carriera, l’avvocato e giurista Fernanda Contri ha attraversato più di vent’anni di storia della Repubblica: nel 1993 è stata la prima donna segretaria generale del Consiglio dei ministri del governo Amato, poi ministra del governo Ciampi e nel 1996 è diventata la prima donna giudice della Corte costituzionale. Prima ancora, però, ha ricoperto il ruolo di membro laico del Consiglio superiore della magistratura nel quadriennio dal 1986 al 1990.

Erano gli anni duri del maxi processo a Cosa nostra e della stagione dei veleni a Palermo contro Giovanni Falcone, che è stato suo carissimo amico fino alla strage di Capaci del 23 maggio 1992, quando il giudice venne assassinato dalla mafia insieme alla moglie e agli uomini della sua scorta. A quel tragico epilogo lega il ricordo di quel periodo e per questo del suo mandato al Csm parla poco e malvolentieri. Ancora oggi «se capita di dover passare per piazza Indipendenza, chiedo all’autista di cambiare strada».

Perché questo fastidio?

Perché lego quella stagione, gli anni dal 1986 al 1990, all’omicidio di Falcone. Avvenne due anni dopo ma, col senno di poi, è indirettamente derivato anche dalle scelte di quel Csm di cui ho fatto parte. E perché ricordo il clima che si respirava in Consiglio: allora come oggi era attraversato da fortissime tensioni e soprattutto pressioni interne. Qualcosa che noi laici non avevamo mai avvertito, eppure la nostra nomina era di matrice politica e ci si aspetterebbe che proprio noi fossimo maggiormente condizionati.Ø

Lei era stata nominata in quota socialista. Non riceveva indicazioni di voto dal Psi?

Assolutamente no. Io e il collega Mauro Ferri non abbiamo mai ricevuto mandati da parte del Psi, che pure ci aveva proposto per quel ruolo. Abbiamo sempre mantenuto totale autonomia di giudizio e di voto, tanto è vero che i nostri voti spesso divergevano. Lo stesso accadeva per i laici indicati dalla Democrazia cristiana e alcune volte anche per quelli del partito comunista.

per i togati, invece, non era così?

Tra di loro le dinamiche correntizie erano molto avvertibili, quando si impuntavano su qualcosa nascevano faide interne ma allo stesso tempo esercitavano una difesa castale impenetrabile. Già nel mio quadriennio il Consiglio era governato dai grandi personalismi e la regola era che solo il più potente ce la fa.

In cosa si traduceva, concretamente, questa difesa castale?

Io sono stata vicepresidente della sezione disciplinare, quella che giudica gli illeciti dei magistrati. Le assicuro che nei confronti di alcuni di loro era impossibile formulare alcuna ipotesi di responsabilità.

Perché ritiene che il Csm di cui lei ha fatto parte abbia avuto colpe indirette per l’assassinio di Falcone?

Per colpa di alcune decisioni, prese nel 1988 e nel 1989. In una bisognava scegliere il nuovo capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, il successore del giudice Antonio Caponnetto. Il Csm si divise a metà e fu scelto Antonino Meli e bocciato Falcone, 14 voti contro 10. In un’altra occasione, poco dopo il fallito attentato dell’Addaura, il Csm in qualche modo lo indicò come soggetto debole, non difeso dai suoi stessi colleghi. E’ così che Falcone ha iniziato a morire.

Sa dire per quale ragione il Csm tenne questa linea?

Invidia. Non ho mai visto tanta invidia nei confronti di qualcuno. La solitudine di Falcone è nata per questo e tutti gli ostacoli che il Consiglio gli ha frapposto derivavano dalla sua volontà di rimanere fuori dalla dinamica delle correnti.

Lui era cosciente di quel che stava succedendo?

Dopo il voto contro di lui, incontrai Falcone per cena insieme a Vito d’Ambrosio, togato che come me lo aveva sostenuto nella candidatura a Palermo. Quando insieme provammo a spiegargli la ragione della bocciatura, lui lasciò la stanza in silenzio e andò sul balcone. Quando rientrò ci chiese se ci rendevamo conto di quello che il Csm aveva fatto.

Da allora a oggi, il problema del Csm continuano ad essere le nomine e le dinamiche che le determinano. Crede che il problema abbia origine da come il Consiglio è strutturato?

No, tutto dipende da chi ne fa parte e dalle decisioni che prende. Non riesco a immaginare un Csm diverso dal punto di vista della sua divisione tra membri laici e togati: l’equilibrio immaginato dai costituenti è perfettamente bilanciato.

Oggi chi si dichiara contro i meccanismi correntizi chiede che il sistema elettorale dei togati al Csm sia corretto con un meccanismo di sorteggio.

Mi sembra una conseguenza estrema e non sono certa che sia auspicabile, ma capisco il senso con cui viene proposta.

Si obbietta che scegliere per sorteggio i membri togati del Csm li renda meno qualificati e rappresentativi, rispetto a candidati scelti con un meccanismo elettivo.

Ma i magistrati per definizione dovrebbero essere qualificati. Sia mentre svolgono il servizio che quando diventano membri del Csm, dovrebbero conservare i requisiti che indica la Costituzione per loro: autonomia e indipendenza. Eppure le assicuro che, nel mio quadriennio al Csm, ho visto spesso una grande mancanza del distacco necessario a prendere le decisioni senza schieramenti preconfezionati.

Mentre la politica lavora alla riforma dell’ordinamento giudiziario, dentro la magistratura si ripete che la prima riforma dovrebbe essere etica e avvenire dall’interno della categoria stessa, perchè non è con la legge che si risolve una crisi come quella attuale. Crede sia possibile?

Non mi sembra positivo che la magistratura si dica da sola come deve essere, perché ogni giudizio su se stessi è viziato. Inoltre in questa fase mi sembra che la magistratura manchi di due requisiti necessari per fare questo percorso: la serenità e la freddezza.

Quindi serve la politica, che prova a recuperare spazio. Avrà la forza per riformare la magistratura?

La politica dovrebbe recuperare spazio in tutti i settori, perché lo ha perso ovunque e non solo nei confronti della magistratura. Mi sembra che il presidente del Consiglio Mario Draghi stia provando a farlo, bisogna vedere se i partiti lo seguiranno oppure proveranno a ostacolarlo. A non aiutare la serenità del rapporto tra politica e magistratura, però, è anche la stampa.

Perché?

Glielo spiego in questi termini. Nel 1960, quando ho iniziato a fare l’avvocato, il rispetto per il ruolo di terzietà del magistrato era tale e talmente forte che si aveva pudore di dire di averlo incontrato al di fuori dei luoghi di lavoro. Oggi, invece, sembra che i magistrati siano ovunque e, se non li intervistano, i giornalisti sentono di non aver fatto il loro lavoro. Ci vorrebbe maggior riserbo, a tutela di tutti.

Oltre che membro del Csm, lei è stata anche ministra per gli Affari sociali del governo Ciampi e la prima donna giudice della Corte costituzionale. Si può dire che lei abbia aperto la strada alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, che della Consulta è stata la prima donna presidente.

Per me essere donna è stato difficile solo all’inizio della mia carriera. Ho dovuto faticare molto per entrare all’università di giurisprudenza e poi per iniziare la professione di avvocato, che negli anni Sessanta in Italia era ancora difficile per le donne, anche se nel mio campo, che è sempre stato il diritto civile, la difficoltà si sopportava meglio. In tutti gli altri ruoli che ho avuto la fortuna di ricoprire, invece, non ho mai avvertito discriminazioni. Meno che mai alla Corte costituzionale, dove il rapporto coi colleghi è sempre stato di assoluta parità, anche nei confronti più duri. L’unica incomprensione, se vuole saperla, l’ho avuta quando mi sono insediata e ho dovuto insistere per farmi cucire i bottoni della toga nel verso giusto, perché li avevano messi al maschile.

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