La violenza sessuale su minore è tra i reati più odiosi del codice penale ed è punita con il carcere da 7 a 14 anni. Dimostrarla quando non ci sono prove fisiche e i minori sono molto piccoli è il passaggio processuale più delicato. E anche quello che genera errori giudiziari.

Il 27 gennaio la Cassazione sarà chiamata a pronunciarsi proprio su questo nella richiesta di processo di revisione di un imprenditore di Como, accusato e condannato in via definitiva a 7 anni e sei mesi per aver abusato della figlia di poco più di due anni. Nel 2011 l’uomo si sta separando dalla moglie e nello stesso periodo viene denunciato per presunti abusi sessuali sulla bambina, di cui la madre vorrebbe ottenere l’affido esclusivo.

Il cambio del pannolino

L’ipotesi di abuso nasce dalle dichiarazioni della stessa madre e della nonna materna, che raccontano di frasi dette dalla piccola. A sostanziare l’accusa c’è anche la pediatra che, dopo una «occhiata al cambio del pannolino», constata la presenza di arrossamenti che sarebbero compatibili con un abuso.

Nulla però viene né refertato né fotografato e la dottoressa, durante il processo, ammette di non aver mai trattato o visto casi di violenza sessuale. Nel corso del processo di primo grado, il giudice per le indagini preliminari fa svolgere – in sede di incidente probatorio – una prima perizia sulla bambina. La psicologa infantile segue le linee guida accreditate dalla comunità scientifica e stabilisce che la minore non dice nulla né tiene comportamenti compatibile con l’ipotesi di abusi. All’uomo vengono sequestrati il cellulare e il computer e gli inquirenti ascoltano gli amici e conoscenti ma non emerge nulla.

Il giudice nomina poi un nuovo psicologo che deve valutare la capacità della bambina di testimoniare al processo, il quale segue le linee guida del Cismai, il Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e gli abusi all’infanzia.

Il consulente ascolta più volte la piccola, sempre alla presenza della madre che la tiene in braccio, le pone domande che chiamano in causa il padre (nei verbali ne è riportata una: «Dove ti ha fatto male?»). Nella relazione finale, lo psicologo riferisce di aver raccolto alcune risposte che confermerebbero la presenza di abusi sessuali. Queste parole, però, non sono riascoltabili perché la bambina le avrebbe pronunciate nell’unico incontro che non è stato videoregistrato. Sulla base di questa perizia, che viene considerata attendibile sia in primo grado che in appello che poi nel giudizio di Cassazione, nel 2015 il padre viene condannato e dal 2011 gli è stato proibito di incontrare la figlia.

Il caso non si chiude qui. Nel 2017, l’Ordine degli psicologi della Lombardia emette una sanzione disciplinare a carico dello psicologo che ha svolto la perizia sulla bambina «per aver impiegato metodologie delle quali non è stato in grado di indicare le fonti e riferimenti scientifici» e «per aver espresso valutazioni e giudizi professionali non fondati su conoscenza professionale diretta o su documentazione adeguata e attendibile». Anche la visita della pediatra è risultata scientificamente inattendibile: non seguiva le regole per il corretto accertamento degli abusi su minori previste dalla Accademia americana di pediatria.

Sulla base di questi fatti nuovi, i legali dell’uomo hanno chiesto alla Corte d’appello di Brescia la revisione del processo, ma la corte ha rigettato l’istanza. Così, nel 2018, è iniziato un braccio di ferro tra giudici: gli avvocati hanno impugnato in Cassazione la pronuncia di rigetto e la corte la ha annullata, stabilendo che i giudici di appello debbano valutare il provvedimento disciplinare ai carico del perito e i contenuti della visita, alla luce delle nuove linee guida. La corte d’appello di Brescia, tuttavia, rigetta di nuovo l’istanza degli avvocati e non si adegua alle indicazioni fornite dalla Cassazione. Gli avvocati hanno nuovamente impugnato la pronuncia di rigetto, che arriva quindi per la seconda volta davanti alla Cassazione.

I precedenti

Analizzato senza riferimenti storici, il caso di Como potrebbe apparire come una comune questione processuale su fatti dolorosi ma circoscritti. Invece, il ruolo determinante della perizia e soprattutto la presenza del Cismai lo incastrano in un quadro più ampio. Il più recente e noto dei quali è il caso di Bibbiano, sui presunti casi di abusi sessuali su minori poi tolti alle famiglie, che ha al centro la figura di Claudio Foti e la sua onlus, per lungo tempo iscritti al Cismai. Sui giornali il suo è diventato il “metodo Foti”, il diretto interessato lo definisce del «disvelamento progressivo» o «empatico», mentre secondo il tribunale sarebbe «una tecnica invasiva e suggestiva».

Vent’anni prima c’era stato il caso dei “diavoli della bassa modenese”, raccontato nel podcast Veleno di Pablo Trincia. Negli stessi anni, a Milano, il procuratore aggiunto Piero Forno aveva inventato il cosiddetto “metodo Forno”, avvalendosi proprio di periti aderenti al Cismai e istruendo centinaia di processi per stupri e abusi frutto di confidenze dei bambini agli educatori, con il coordinamento con il Tribunale dei minori, per allontanare subito i bimbi dai genitori sospettati.

Spenti i riflettori, tuttavia, la prassi di utilizzare le linee guida Cismai per le perizie sta silenziosamente continuando.

Il Cismai è un’associazione privata fondata nel 1993, che opera nel campo degli abusi su minori e a cui sono iscritti assistenti sociali, psicologi e psichiatri. Gli associati applicano la “Dichiarazione di consenso in tema di abuso sessuale” elaborata dall’associazione. La dichiarazione prescrive di vietare domande suggestive ai minori, ma muove da un assunto preciso: «Non si hanno dati certi sulla quantità di falsi positivi, ma è comprovato che l’abuso sessuale è un fenomeno frequente e in grande prevalenza sommerso». Inoltre, «le separazioni coniugali altamente conflittuali sono indicate come una condizione di particolare rischio per l'insorgenza di dichiarazioni non veritiere, ma possono essere anche occasioni che favoriscono rivelazioni autentiche». Inoltre, «quanto più il bambino è stato danneggiato dall'abuso, tanto più può essere compromessa la sua capacità di ricordare e raccontare». Inoltre, la dichiarazione non prevede l’obbligo di registrare le sedute coi minori. In sostanza, segno di abuso non è solo il fatto che un minore lo racconti, ma anche il fatto che non lo racconti perché è traumatizzato.

Il Cismai disattende le regole della Carta di Noto, linee guida redatte nel 1996 e aggiornate nel 2002 che indicano come comportarsi quando ci si trova coinvolti a titolo professionale, nel lavoro con i minori presunte vittime di abuso. Queste linee guida prevedono - tra gli obblighi nell’ascolto dei minori - la videoregistrazione, il divieto di domande suggestive e l’utilizzo di metodologie scientificamente affidabili.

Il buco nero dei periti

«Quella del Cismai è più una filosofia che un metodo scientifico e parte da due assunti: che gli abusi sui minori siano tantissimi ma la maggior parte non emerga, e che i bambini dicano sempre la verità e vadano presi alla lettera. Invece, un bambino di due anni che non ha ancora sviluppato a pieno la memoria e nemmeno la parola, è in grado di dire che il giorno prima, all’asilo, sono arrivati i Pokemon, come ha dimostrato un esperimento», spiega Giuseppe Sartori, professore di neuropsicologia forense all’università di Padova e presidente della Società di psicologia giuridica, che considera le linee guida del Cismai prive di base scientifica.

Come è possibile allora che chi dichiara di aderire a queste linee guida possa essere nominato perito in un processo penale? Il giudice, il pubblico ministero e gli avvocati hanno piena discrezionalità nella nomina dei periti e dei consulenti, basta che siano iscritti all’albo degli psicologi. Inoltre, il Cismai è iscritto alla lista delle società scientifiche di area psicologica presso il ministero della Salute, ai sensi di una legge del 2017 e questo è il principale argomento di difesa utilizzato dai membri dell’associazione per giustificare la scientificità delle tesi. «Ma una associazione non è scientifica perché qualche burocrate l’ha iscritta a una lista tenuta dal ministero, lo è solo se i suoi ricercatori hanno prodotto letteratura scientifica accreditata, che viene pubblicata cioè su riviste internazionali. Invece i professionisti che lavorano nel Cismai sono ignoti nell'ambito della ricerca», risponde Sartori.

«Cercando su Google scholar (sistema usato per misurare la credibilità scientifica ndr), risulta come gli aderenti al metodo Cismai non abbiano pubblicato ricerche accreditate, sottoposte alla peer review, ovvero alla revisione di altri scienziati che li vagliano e ne comprovano la validità», conclude Sartori. L’ufficio stampa del Cismai e la presidente, Gloria Soavi, sono stati contatti più volte, ma non hanno risposto.

Se queste cose le sanno anche i giudici, perché i periti che utilizzano il metodo Cismai continuano ad essere nominati? La ragione è che, spesso, giurisprudenza e psicologia parlano lingue differenti. Lo stesso perito, infatti, andrebbe prima vagliato da avvocati e magistrati, chiedendogli conto delle sue metodologie di analisi, assicurandosi che siano attendibili secondo la comunità scientifica di riferimento. Invece, l’orientamento prevalente è indagare il contenuto della perizia, prima ancora che il metodo con cui essa è stata svolta.

In teoria esiste una giurisprudenza che ci dice che cosa è una buona scienza, che può essere utilizzata nel processo penale. Si tratta della sentenza Cozzini, che fissa i criteri per l’attendibilità di una prova scientifica, facendo proprio il “Daubert standard” stabilito in una sentenza dalla Corte Suprema americana nel 1993.

Secondo la Cassazione, perché l’operato di un professionista di ambito scientifico che interviene in un processo sia attendibile, deve uniformarsi a cinque criteri: «La tecnica deve essere falsificabile; deve essere pubblicata su riviste internazionali con sistema di peer review; deve essere definito un tasso di errore; devono esserci standard e controlli costantemente aggiornati; la tecnica deve essere generalmente accettate dalla comunità scientifica di riferimento».

Criteri, questi, che dovrebbero escludere gli psicologi che utilizzano le linee guida Cismai dalle liste dei periti scientificamente accreditati. Il problema è che il mancato uso di una scienza solida porta a conseguenze giudiziarie gravi.

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