Stefano Guizzi è toga di Cassazione e nome noto di Magistratura indipendente. Perché si candida al Csm fuori dal suo gruppo?

Per due ragioni. Innanzitutto, per proporre la mia storia professionale direttamente a tutti i colleghi, saltando ogni intermediazione. Nello spirito della nuova legge elettorale, che limita – sebbene in modo ancora timido e incompleto – il peso degli “apparati” correntizi. Poi perché lo statuto del mio gruppo associativo è divenuto, nel contesto della riforma Cartabia, del tutto obsoleto, rimettendo, di fatto, la designazione dei candidati alla volontà dei segretari distrettuali, specie delle Corti di Appello più grandi. Se si vuole mantenere, all’interno dei gruppi della magistratura associata, la scelta dei candidati al Csm, occorre che il voto degli iscritti – come è regola generale, quando riguarda persone – sia libero, segreto e, soprattutto, eguale.

Sente di fare ancora parte di Mi?

I valori di misura, ponderazione, apoliticità, e soprattutto il rifiuto della cultura del sospetto, cioè i tratti culturali distintivi di magistratura indipendente, ispirano – e ispireranno sempre – il mio operato di magistrato, in ogni funzione.

I gruppi associativi non hanno preso bene la scelta di candidarsi autonomamente, cosa non ha permesso la candidatura sua e di altri suoi colleghi nelle liste di Mi?

Il peso che – all’interno di Magistratura indipendente – esercitano, molto più che in passato, le nomenclature. È un problema che deriva dallo statuto associativo, che assegna – mi si passi il termine – una vera e propria “golden share” ai segretari dei singoli distretti di Corte di Appello, specie quelli più grandi. Ogni segretario – nell’assemblea generale, luogo tra l’altro deputato a designare i candidati alle elezioni del CSM – rappresenta, automaticamente, tutti gli iscritti del suo distretto, esprimendo, così, un numero di voti pari ad essi. Certo, vi è la possibilità che i singoli associati – presenti di persona in assemblea – si esprimano in dissenso rispetto al proprio segretario, ma ciò vulnera il principio della segretezza del voto, che dovrebbe essere, invece, regola generale, in caso di votazioni su persone. Se poi si considera che, attualmente, il segretario del secondo distretto italiano per numero di magistrati – quello di Roma – è membro in carica del Csm, non si fatica a comprendere come il sistema per la designazione dei candidati, più che un’elezione, stia divenendo, ormai, una vera e propria cooptazione.

Un collegamento con altri candidati è possibile fino a poco prima del voto, è nell’aria?

No per quanto mi riguarda, visto che la legge elettorale non prevede, per i magistrati di Cassazione, “apparentamenti”. Certo, guardo con grande interesse e simpatia all’impegno di quei colleghi – soprattutto, ma non solo, quelli affini alla mia area culturale – che mi pare si muovano nel mio stesso spirito. Sul punto, però, voglio essere chiaro: non sta nascendo alcuna nuova corrente. L’ordine giudiziario non ne ha nessun bisogno. Il tratto che accomuna queste candidature definite “indipendenti” è lo spontaneismo. Ovvero l’assenza di reti di relazioni pregresse o, peggio, di vincoli di fedeltà. Chi si candida da “indipendente” lo fa per offrire ai colleghi il suo bagaglio professionale e null’altro. Nella convinzione che questo sia il solo modo perché gli eletti possano svolgere “le loro funzioni in piena indipendenza e imparzialità”, distinguendosi “tra loro solo per categoria di appartenenza”, come chiede la nuova legge sull’ordinamento giudiziario.

Al suo nome viene spesso associato quello di Cosimo Ferri, ex capocorrente di Mi.

Lo conosco da quasi trent’anni, è un caro amico. Abbiamo condiviso l’esperienza della preparazione al concorso in magistratura e, poi, l’esercizio delle funzioni giudiziarie di merito – oltre al comune impegno nell’associazionismo giudiziario – nella stessa Corte di appello a Genova. In seguito, le nostre strade si sono differenziate, visto che da circa un decennio io svolgo le mie funzioni presso la Cassazione, mentre Cosimo ha ricoperto incarichi in ambito politico. Di recente, poi, il suo impegno come deputato lo ha portato a sostenere il sorteggio dei componenti togati del Csm: scelta che rispetto, ma dalla quale dissento radicalmente, restando convinto che l’elezione, oltre ad essere la soluzione imposta dalla nostra Costituzione, resti il sistema migliore, purché, però, vi sia spazio per un’ampia e libera partecipazione alla competizione elettorale.

Lei ha difeso Luca Palamara nel disciplinare al Csm, cosa ha insegnato quel caso e quanto impatta nella campagna elettorale?

Cosa abbia insegnato ai magistrati, non spetta a me dirlo. A me, personalmente, ha insegnato – ma era una convinzione già maturata difendendo, negli ultimi dieci anni, quasi una cinquantina di colleghi – che ad ogni incolpato deve essere assicurata quella che la Corte costituzionale ha definito la “massima espansione delle garanzie difensive”. Perché lo strumento disciplinare può sempre trasformarsi in una “leva” formidabile, nelle mani del Csm, per limitare – o condizionare – l’autonomia e indipendenza “interna” della magistratura. Come, poi, impatterà questa vicenda sulle elezioni, non lo so, non essendo un indovino. Ma mi lasci citare lo Shakespeare del “Giulio Cesare”, sarà sufficiente aspettare il prossimo 19 settembre: “Basta solo che il giorno trascorra e la sua fine è nota”.

E il caso della loggia Ungheria?

Mi pare che l’indagine penale si sia risolta in un nulla di fatto per gli inquirenti, oltre che in un “boomerang” per chi aveva pensato di “cavalcare” quei fatti.

Correntismo e gruppi associativi: esiste differenza?

È la stessa che passa tra i partiti – indispensabili al funzionamento della democrazia, secondo il dettato dell’art. 49 della Costituzione – e la partitocrazia. I gruppi associativi sono – o meglio, dovrebbero essere – luoghi, innanzitutto, di riflessione culturale, strumenti per l’elaborazione di politiche della giurisdizione, nel contesto di una società pluralista, qual è quella scaturita dal disegno, nuovamente, dei costituenti del 1948. Il correntismo è, invece, il prodotto della loro degenerazione in veri e propri centri di potere, secondo un meccanismo ormai palese. Il “cursus honorum” resta, purtroppo, sempre quello: si parte dal comitato direttivo centrale dell’Anm (quello che i giornali chiamano, forse non a torto, il “Parlamentino” dei magistrati), passando, magari, per il ruolo di segretario generale di una corrente, per approdare, finalmente, ad uno scranno del Csm.

Ci sono ancora gli “uomini forti” dentro la magistratura, come fu Palamara?

Se mi passa una battuta, uomini e donne, direi, anche se – parlando non più per celia – molto deve essere ancora fatto, per garantire un’effettiva parità di genere, nei più alti ruoli dell’ordine giudiziario. Ho già descritto il meccanismo che porta alla formazione della nomenclatura delle correnti, ma mi faccia aggiungere che – spesso – le vere eminenze grigie della magistratura sono quelli che io definisco come “uomini cerniera” con la politica. E badi bene, non mi riferisco tanto a chi ha deciso di scendere nell’agone politico, così rendendo pubblici i propri convincimenti. Ben più insidiosa della politicità palese è, infatti, quella occulta, coltivata da chi, attraverso incarichi fuori ruolo, di varia natura, intesse reti di relazioni personali.

Questa legge elettorale ha veramente cambiato il meccanismo rispetto a quello lottizzato raccontato nel “Sistema”?

Si tratta di un primo, sebbene ancora timido e incompleto, passo in avanti, come dimostra il proliferare delle candidature “indipendenti”, più che dalle correnti, dai loro apparati. Candidature il cui tratto caratteristico mi pare sia lo spontaneismo. Ovvero l’assenza di reti di relazioni pregresse o, peggio, di vincoli di fedeltà. Chi si candida da “indipendente”, lo fa per offrire ai colleghi il proprio bagaglio professionale, e null’altro. che la nuova legge susciti il nervosismo delle nomenclature correntizie lo confermano le dichiarazioni di chi ritiene che essa sia, non uno strumento pensato per garantire la migliore rappresentatività del Csm, ma per arginare l’influenza dei gruppi associativi. Così fingendo di ignorare che si tratta delle due facce di una stessa medaglia, avendo il legislatore ben compreso che la migliore rappresentatività del Consiglio passa proprio attraverso il ridimensionamento degli apparati correntizi. I quali, infatti, nel tentativo di arginare il grande interesse che le candidature indipendenti stanno suscitando presso tantissimi colleghi (anche interni ai gruppi della magistratura associata), ricorrono all’argomento del “voto utile”, ormai però logoro, in un contesto legislativo caratterizzato dalla frantumazione dell’offerta elettorale.

Ritiene che l’autocritica dei gruppi associativi sia stata troppo scarsa rispetto alle reali necessità di autoriforma?

Chi ha la responsabilità di guidare la magistratura associata, nelle sue varie articolazioni, più che battersi ipocritamente il petto a parole o rinfacciarsi, a turno, la presunta maggiore gravità degli episodi che hanno colpito esponenti dei gruppi avversi, dovrebbe abbandonare le prassi distorte che hanno, negli ultimi vent’anni, presieduto alla selezione dei membri dell’organo di governo autonomo della magistratura. Se si vuole mantenere, all’interno dei gruppi della magistratura associata, la scelta dei candidati al Csm, occorre che il voto – come è regola generale, insisto nel sottolinearlo, quando esso ha ad oggetto la scelta di persone – sia libero, segreto e, soprattutto, “eguale”.

Lei è uno dei più noti difensori di suoi colleghi in procedimenti disciplinari. Lo considera un sistema che funziona?

Tendenzialmente, ma si tratta di una soluzione che presuppone una modifica costituzionale, sarei favorevole all’istituzione di un’Alta Corte, comune a tutte le magistrature, con previsione di un unico codice disciplinare, composta da ex magistrati, ordinari, amministrativi e contabili, oltre che da professori universitari ed avvocati, tutti eletti dal Parlamento. Un modello proposto, in passato, tra gli altri, da due giuristi – diversissimi per formazione, storia professionale ed orientamento politico-culturale – come Luciano Violante e Alfonso Quaranta. E ciò al fine di sottrarre al “circuito” elettorale l’amministrazione della giustizia disciplinare.

L’ex procuratore generale di Cassazione, Giovanni Salvi, è stato oggetto di critiche per i pochi procedimenti aperti in seguito alla pubblicazione delle chat di Palamara.

Più che denunciare – lo ha fatto un autorevole ex magistrato di legittimità come Rosario Russo – l’esistenza di una “grazia”, che sarebbe stata assicurata a molti magistrati che interloquirono con Luca Palamara, varrebbe la pena sollecitare un ripensamento della linea assunta, in tempi recenti, dalla Procura Generale, che prevede la segretezza dei decreti di archiviazione delle notizie astrattamente rilevanti sul piano disciplinare. Ben diversa, per vero, era stata l’impostazione iniziale di Giovanni Salvi, che – addirittura a mezzo conferenza stampa – aveva annunciato di volere inserire, nel massimario della Procura Generale della Cassazione (sebbene con l’ovvio rispetto dell’anonimato dei soggetti interessati) tutti i decreti di archiviazione concernenti il cosiddetto “palamaragate”. Ciò avrebbe permesso di comprendere quali condotte siano state ritenute lecite (o meglio, non illecite). Ogni sistema sanzionatorio mira ad una finalità, in senso lato, “pedagogica”, sicché quei decreti avrebbero potuto orientare, in futuro, la condotta di altri magistrati, permettendo di stabilire quali comportamenti – nel relazionarsi con membri del Csm – si mantengano entro la sfera della liceità.

Che sfide si trova davanti il nuovo Csm e cosa dovrà cambiare?

Vi è necessità di dare attuazione a molti dei principi enunciati dalla “riformaCartabia”. Penso, innanzitutto, alla previsione relativa all’applicazione della legge sul procedimento amministrativo, per quanto compatibile, alle procedure per il conferimento degli incarichi di direzione degli uffici giudiziari. Norma, questa, di grande importanza, perché supera finalmente l’incertezza – di cui è testimonianza la varietà di opinioni espresse in dottrina – che ha circondato la natura di tali atti, ora ritenuti provvedimenti di alta amministrazione, ora, invece, assimilati ad atti di “politica giudiziaria”, con pretesa di sottrarli al sindacato del giudice amministrativo. Ma la sfida più importante che il nuovo Csm dovrà affrontare è quella di assicurare che le più stringenti norme sulla valutazione di professionalità dei magistrati non si trasformino in unacsurrettizia gerarchizzazione dell’ordine giudiziario.

© Riproduzione riservata