Da quelli alle Brigate rosse fino al G8, l’avvocato pisano Ezio Menzione ha preso parte ai processi che hanno segnato la giustizia italiana. Di quei tre giorni di follia che incendiarono Genova è stato testimone diretto, oltre che difensore in tutti e tre i processi: ai manifestanti e per i fatti della scuola Diaz e di Bolzaneto. E ricorda: “Ho assistito alla sospensione dei diritti individuali e collettivi dei manifestanti, ma attraverso il processo abbiamo ristabilito, seppur a distanza di anni, una cornice democratica”.

Come mai lei era a Genova?

Forse prevedendo quel che rischiava di succedere, il Social forum si era attrezzato con un pugno di legali. Io aderii convintamente per una serie di ragioni: politicamente, mi sono sempre considerato appartenente all’estrema sinistra, inoltre avevo esperienza di processi concernenti manifestazioni e avevo sentito parlare di ciò che era avvenuto con il movimento di Seattle. In America gli avvocati erano scesi in piazza per veder riaffermato il diritto a manifestare e per inibire, con la loro presenza, gli eccessi delle forze dell’ordine. Lo stesso provammo a fare a Genova.

E ci riusciste?

Bisogna dividere il G8 in due momenti. Durante la manifestazione dei migranti del giovedì sì: il corteo era ordinato, ma quando fece la mossa di avvicinarsi alla zona rossa i poliziotti sembravano voler caricare. Noi avvocati eravamo lì e ci siamo interposti fisicamente tra le parti, per evitare che venissero in contatto. Le cose cambiarono nei due giorni successivi, in cui le manifestazioni vennero attaccate e noi non abbiamo avuto lo spazio per tentare una mediazione.

Anche lei era in piazza al momento delle cariche?

Sì. Ricordo un povero medico del Social forum, con la pettorina che lo identificava, che mostrava inutilmente il suo tesserino mentre veniva pesantemente picchiato dalle forze dell’ordine. Io intervenni provando a fermarli e questi si rivoltarono anche contro di me. Lì capii che ogni mediazione era impossibile.

Dalla piazza, molti manifestanti vennero portati in carcere. Lei assunse la difesa di molti di loro.

Giuliano Pisapia, che all’epoca era parlamentare, sfruttando le sue prerogative riuscì ad entrare nelle carceri di Alessandria e di Voghera. Moltissimi dei ragazzi detenuti gli domandarono chi nominare come avvocato e siccome lui mi conosceva, tra gli avvocati del Genova Social forum, disse il mio nome. Mi ritrovai con diverse decine di nomine di fiducia, che smistai a tutti gli altri colleghi. Fu un momento complicato, perché si evidenziarono i maggiori deficit di legalità.

In quelle carceri vennero violati i diritti dei detenuti?

Vennero violate le garanzie di difesa. La procura, infatti, aveva emesso un ordine di sospensione dei colloqui tra il fermato o arrestato e il difensore nominato, una misura che si può assumere in casi eccezionali, nominalmente e motivatamente caso per caso. Invece era assolutamente illegittimo quel che fecero a Genova: un ordine generale destinato a durare tutti e tre i giorni, su un numero imprecisato di manifestanti e un documento prestampato in cui inserire i nomi.

Che senso aveva un ordine del genere?

All’epoca capimmo subito che il provvedimento si poteva prestare a coprire tutto ciò che avveniva in carcere. Certo nell’immediato nessuno arrivò a ipotizzare le nefandezze che poi emersero a Bolzaneto e San Giuliano, ma il senso dell’iniziativa della procura era evidente. La possibilità dell’avvocato di interloquire con il proprio assistito, infatti, non è solo a presidio del diritto di difesa, ma anche dell’integrità fisica del detenuto. Invece, la procura stabiliva che non ci fossero contatti fino a quando i fermati non fossero stati portati in carcere, cosa che per molti manifestanti significò rimanere in balia delle forze dell’ordine fino a 72 ore.

Ma voi vi opponeste alla misura?

Certamente. Io e un giovane avvocato ci recammo il venerdì stesso davanti a San Giuliano chiedendo di parlare coi fermati, ma ce lo impedirono. Il mio collega tornò anche il giorno dopo e rimase lì l’intera giornata, addirittura incontrò un ispettore con la camicia sporca di sangue, ma non gli fecero nemmeno varcare il cancello esterno. Contemporaneamente, chiedemmo un incontro con il procuratore capo di Genova, il quale minimizzò il provvedimento e lo confermò su tutta la linea.

Lei ha poi difeso alcuni manifestanti in tutti e tre i processi: quello in cui erano imputati ma anche quelli contro le forze dell’ordine per i fatti della Diaz e di Bolzaneto. Che processi furono?

Il primo fu molto diverso dai secondi. Innanzitutto è emerso un dato oggettivo: hanno pagato in modo molto più duro i manifestanti che hanno distrutto vetrine e bancomat rispetto alle forze dell’ordine che hanno picchiato e torturato. Agli uni è stato contestato il reato ormai desueto di devastazione e saccheggio, che ha una pena base che parte dagli 8 anni; agli altri quello di lesioni, che ha una pena molto bassa e per alcuni si è anche prescritto, perché il nostro ordinamento ancora non prevedeva il reato di tortura. Quelli della Diaz e Bolzaneto, poi, furono processi difficili a causa del comportamento degli indagati.

In che modo le forze dell’ordine impedirono l’accertamento della verità?

Tanto per cominciare, il pm aveva il problema della identificazione degli indagati ma da parte delle forze dell’ordine non ci fu alcuna collaborazione, né durante le indagini né nel corso del dibattimento. I pm chiesero i nominativi di chi era presente sui luoghi e le fotografie per confrontarle coi video e le immagini. Solo dopo mesi di insistenze la polizia e i carabinieri mandarono le fototessere dei cartellini identificativi degli agenti. S’immagini: fotografie a volte vecchissime in cui nessuno riconoscerebbe neppure se stesso. Per non parlare poi dei falsi commessi durante i tre giorni del G8: erano falsi tutti e 92 i verbali di arresto della Diaz, era falsa la presenza delle molotov. In nessuno dei tre processi ci fu alcuna collaborazione: le forze dell’ordine si chiusero a riccio. Basti dire che ancora oggi non sappiamo chi era fisicamente presente nella sala della questura dove si decisero le singole mosse.

Lei nel processo ai 25 manifestanti chiamò a deporre anche Mario Placanica, il carabiniere che era stato prosciolto per legittima difesa dall’omicidio di Carlo Giuliani in piazza Alimonda. Come andò?

Chiesi di sentire Placanica, anche se era un teste di risulta nel processo ai manifestanti, perché speravo aggiungesse qualche spiraglio di verità ai fatti. Il tribunale decise di accogliere la mia richiesta e lui venne convocato all’udienza successiva. La mattina dopo la mia richiesta venni svegliato di soprassalto alle sette del mattino dal telefono, dall’altro capo del filo una voce dall’accento del sud mi disse: “Avete chiamato a testimoniare l’appuntato Placanica, pagherete con la morte”. Io capii subito che era lo stesso Placanica a minacciarmi, lo denunciai in procura e il magistrato fu solerte: la telefonata venne identificata come proveniente da un telefono pubblico nel paese calabrese di Placanica. Decisi però di non sporgere denuncia, mi bastava sapere chi fosse stato. Anni dopo, la moglie separata me lo confermò, dicendomi che era uscito di casa apposta la mattina presto per fare quella telefonata. Il punto, però, era come aveva fatto a sapere così velocemente della chiamata a deporre, perché il dettaglio non era emerso sulla stampa.

All’udienza si presentò?

All’inizio no, mandò un certificato. Poi il tribunale lo riconvocò e lui fu costretto a venire, ma si avvalse della facoltà di non rispondere e non disse nulla. Nel processo per la morte di Giuliani era stato prosciolto con la formula del non luogo a procedere in sede di chiusura delle indagini, che non è un’assoluzione e dunque qualsiasi nuovo elemento poteva far riaprire l’indagine.

E’ rimasto deluso dall’esito dei processi per i fatti della Diaz e di Bolzaneto?

Le rispondo in questo modo: al di là delle pene, nei processi Diaz e Bolzaneto sono state ricostruite la dinamica dei fatti e le singole responsabilità, e questo nonostante il clima che aveva accompagnato il processo nei mesi immediatamente successivi. L’idea dilagante immediatamente dopo i fatti era quella che dentro la Diaz ci fossero solo black bloc e fu grazie al processo che l’opinione pubblica capì che erano invece manifestanti pacifici.

E nel processo ai 25 manifestanti?

In quello c’è un punto che mi è caro e che vorrei sottolineare, per controbilanciare il dato della scelta molto discutibile del reato di devastazione e saccheggio. In quel processo, a molti manifestanti venne riconosciuta l’esimente della risposta legittima a fatto arbitrario della pubblica amministrazione. Si tratta di una ipotesi estremamente rara anche nella applicazione a singoli casi, mentre in questo caso venne accolta su larga scala per il corteo di via Tolemaide, perché riuscimmo a dimostrare che la carica dei carabinieri era arbitraria, visto che la manifestazione era autorizzata e pacifica. Non fu un risultato da poco.

I fatti di Genova hanno insegnato qualcosa? 

Gli eventi di quei giorni hanno dimostrato la fragilità della nostra democrazia, che richiede una vigilanza continua e spesso questa vigilanza risiede in ciò che fanno e possono fare gli avvocati. I tre processi, però, hanno anche mostrato che è possibile utilizzare il processo come luogo di ricostruzione di una cornice democratica.

Anche se servono molti anni?

Sì, anche se sono processi impegnativi e molto lunghi. Perché i risultati infine si vedono: se oggi vi è nella gente comune la consapevolezza che a Genova ad attaccare lo stato non furono i manifestanti, è grazie a quei processi. Inoltre, il reato di tortura è stato riconosciuto nel nostro ordinamento dopo 25 anni grazie a un intervento della Cedu che si innestava nel ricorso di uno dei manifestanti genovesi.

A lei come avvocato che cosa è rimasto, invece?

E’ stato grazie all’esperienza di Genova che ancora oggi sono spinto ad impegnarmi in prima persona nei luoghi di conflitto e di sospensione dei diritti umani, come la Turchia, l’Egitto e Hong Kong. Non posso più esserci come quando ero giovane, correndo con la pettorina gialla, ma è quello spirito che mi ispira ancora.

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