«Un giorno dopo l’altro», come scriveva Luigi Tenco con una cupezza adeguata allo sconforto infuso dalle cronache di questi giorni, la drammatica verità del rapporto tra carcere e virus viene a galla.

La finzione del carcere come “luogo sicuro” è stata avvalorata con pochi scrupoli nel discorso pubblico, ma viene man mano capovolta dai fatti e dai numeri del contagio: oltre 700 positivi tra le persone detenute e più di 900 tra quelle che, a vario titolo, lavorano nel penitenziario.

Cade anche l’abbaglio dei reparti 41-bis come “territori protetti” per definizione: nel carcere di Tolmezzo tutti i detenuti sottoposti a regime differenziato risultano contagiati e se ne contano anche nell’istituto di Milano-Opera.

Era inevitabile. L’esposizione contaminante è una caratteristica dell’istituzione totale.

La seconda ondata dell’epidemia corre nel Paese e accelera nelle prigioni: se non si vuole arrivare a un conflitto tragico tra la promessa costituzionale di sanzioni penali conformi al principio di umanità e un carcere reale che calpesta il diritto alla salute, occorre subito porre rimedio.

Il decreto Ristori

Le misure legislative adottate nel c.d. decreto “Ristori” appaiono timide e, dunque, inidonee a conseguire lo scopo ineludibile dell’alleggerimento della pressione del sovraffollamento.

Allo stato, benché le presenze fisiche siano inferiori rispetto a quelle dello scorso mese di marzo, 54.000 detenuti sono troppi rispetto ai 47.000 posti effettivi e rispetto alle strategie messe in campo dall’amministrazione penitenziaria per prevenire lo spread del contagio. La creazione di “zone filtro” di isolamento – per i nuovi ingressi, per i casi sospetti, per i positivi sintomatici e per quelli asintomatici – è inattuabile se le cifre rimangono quelle appena dette, a meno di non voler paralizzare la prigione e interrompere anche le attività essenziali.

Allo stesso modo la carenza di risorse, personali e materiali, rende estremamente difficile un sistema di prevenzione, diagnosi e cura davvero efficace per tutta la nutrita popolazione ristretta. 

Due sono le traiettorie che il contrasto al sovraffollamento dovrebbe seguire. In modo semplice e schietto, possono essere così riassunte: meno ingressi, più uscite. Vedremo, tra poco, come questo progetto possa e debba essere realizzato senza minimamente ridurre il grado di tutela della sicurezza pubblica.

Meno ingressi

Iniziamo dal rubinetto di ingresso. Al di là di un ricorso più oculato all’utilizzo del carcere nei confronti dei detenuti in attesa di giudizio (di nuovo predicato dalla Procura Generale presso la Corte di Cassazione), la strada da intraprendere – suggerita anche dal Garante nazionale –– dovrebbe essere, per il tempo necessario a uscire dall’emergenza, quella della sospensione dell’ordine di carcerazione nei confronti dei condannati a pena (anche residua) inferiore a quattro anni. Si tratta di un istituto da delimitare (ne devono rimanere esclusi i responsabili dei reati di mafia e terrorismo), ma che il nostro ordinamento già conosce e sperimenta con successo nei confronti di molti condannati. Nessuna rinuncia alla punizione, nessun indulto mascherato; semmai, un incentivo per molti a tenere un comportamento conforme alle regole in vista di un’esecuzione futura diversa dal carcere o comunque più mite. A conti fatti, un beneficio anche per la sicurezza pubblica.

Più uscite

Rubinetto di uscita. Sono già molte le proposte di emendamento al decreto “Ristori” che mirano a ripristinare uno strumento già utilizzato nel nostro Paese dopo le condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: la liberazione anticipata speciale. Portare da 45 a 75 giorni a semestre i giorni di riduzione della pena conseguibili, consentirebbe di abbreviare il “fine pena” di molte persone che sono ormai prossime a mettere comunque i piedi fuori dal carcere e che, però, sono state valutate positivamente dai giudici sotto il profilo dell’evoluzione della personalità. Anche in questo caso il pericolo per le esigenze di tutela della collettività è prossimo allo zero.

Altro campo di intervento può essere quello di un allargamento delle maglie della detenzione speciale prevista dal medesimo decreto “Ristori”, che al momento è riservata a una platea di beneficiari addirittura più ridotta di quella destinataria delle ordinarie ipotesi di detenzione domiciliare.

Riguardo alle possibilità di detenzione domiciliare è stato opportunamente segnalato dal Garante nazionale il dramma delle persone senza fissa dimora. Su 3359 persone che hanno un fine pena inferiore a diciotto mesi, 1157 non hanno una casa o un posto dove dormire. Nulla di nuovo, è il dramma dei poverissimi in carcere e di una giustizia penale veloce e tempestiva solo con i marginali.

I domiciliari

È auspicabile un intervento che, potenziando i progetti già pensati e finanziati da Cassa Ammende e Direzione dell’esecuzione penale esterna, consenta di ampliare il numero delle strutture e delle dimore sociali ove ospitare i soggetti più vulnerabili da un punto di vista economico e sociale. Solo così si potrà restringere la forbice, da sempre esistente in carcere e sempre più ampia in tempi di Covid, tra deboli e forti.

Quelle accennate costituiscono soltanto abbozzi di possibili soluzioni da adottare prima che il tempo scada. Altre sono immaginabili. È opportuno, però, che il decisore politico faccia presto e agisca con coraggio.

Abbiamo bisogno di un carcere meno affollato per tutelare in maniera integrale la salute di chi è dentro. Anche dei detenuti più pericolosi, dei mafiosi, dei terroristi. Rinunciare a questo obiettivo ci porrebbe fuori dalla Costituzione, dalla democrazia, dalla civiltà. Una resa di questo tipo regalerebbe alla criminalità organizzata fiumi di consenso nel carcere e nei territori. Nelle galere, inoltre, coverebbe rancore anziché riflessione critica sul passato.

Occorre far presto. Altrimenti, per tornare alla bella e dolorosa canzone dell’inizio, «domani sarà un giorno uguale a ieri».

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