Secondo i più recenti dati elaborati da Eurostat (relativi al 2019) circa il 21 per cento della popolazione dell’Unione europea (oltre 92 milioni di persone) è considerato a rischio di povertà, a causa della mancanza o dell’insufficienza di redditi.

Nonostante la percentuale di popolazione a rischio fotografata da tali dati si sia leggermente abbassata nel 2019 rispetto a quella subito successiva alla crisi economica del 2008 (che arrivò quasi al 25 per cento), non solo non ha raggiunto il ribasso previsto dall’Obiettivo 2020 dell’Unione europea (fissato nell’ambito del programma Europe 2020 adottato, nel giugno 2010, dal Consiglio europeo), ma, come mostrano le stime preliminari 2021 dell’Istat, si è estesa fortemente nel 2020 per effetto della nuova crisi economica provocata dall’emergenza sanitaria da Covid-19, toccando valori record. Inoltre, tra gli Stati membri dell’Unione, l’Italia è considerato il sesto paese tra quelli a maggiore rischio di povertà, con una percentuale (27,3 per cento) che supera di molto la media europea. Il dato di fatto appare, quindi, drammatico e preoccupante.

È necessario, tuttavia, fare un passo indietro per comprendere cosa si intenda per “povertà”: si tratta, infatti, di un’espressione tutt’altro che univoca, riconducibile a una serie di nozioni tra loro eterogenee, in quanto è differente a seconda dei metodi e degli indicatori utilizzati per l’analisi.

A seconda dei bisogni considerati essenziali o del punto di osservazione si parla, infatti, di povertà assoluta o relativa, oggettiva o soggettiva, unidimensionale o multidimensionale, trasversale o longitudinale, ecc. Inoltre, il concetto di povertà cambia a seconda che lo si consideri sotto il profilo quantitativo o sotto quello qualitativo.

Proprio a seguito di una maggiore considerazione del profilo qualitativo, il modello di povertà tradizionalmente concepito ha subito una profonda evoluzione ed è stato attualizzato in senso più moderno e anche più inclusivo: se prima, infatti, il termine “povero” connotava soltanto alcune categorie – i disoccupati, le famiglie numerose, gli anziani – oggi, con l’emersione di nuove categorie di poveri – i minori, i giovani, i cdd. working poor, i senza fissa dimora, gli immigrati, i precari, i NEET (Not in Education, Employment or Training), ma anche gli analfabeti informatici – la nozione arriva a ricomprendere un numero maggiore di situazioni di disagio o vulnerabilità sociale, sino a considerare situazioni di povertà non caratterizzate dalla scarsità di mezzi economici, bensì da altri tipi di scarsità: quali la ristrettezza delle relazioni sociali, l’isolamento e l’esclusione sociale, la scarsa salute, il mancato accesso a servizi sanitari o educativi, il c.d. digital divide, ecc.

Considerando, pertanto, l’emersione di (sempre più) nuove categorie di poveri, nonché le conseguenze economiche e sociali devastanti che derivano dalla crisi economica del 2020 provocata dall’emergenza pandemica, il rischio di una deriva della c.d. “società dei due terzi”, dove un terzo della popolazione risulta emarginato, in quella c.d. “delle due metà”, diviene sempre più attuale. Secondo le stime preliminari dei Conti nazionali, infatti, la pandemia e le misure adottate per contrastare l’emergenza sanitaria hanno già comportato un calo del PIL di quasi il 9 per cento, una riduzione della capacità reddituale delle famiglie, un crollo record della spesa media familiare, e lo scivolamento di 335mila famiglie in più, rispetto al 2019, sotto la soglia della povertà assoluta.

La povertà relativa

Tra le varie nozioni di povertà, rientra, anzitutto, quella di povertà relativa, la quale indica la capacità di spesa per beni di consumo inferiore a una certa soglia (la soglia della povertà relativa) costituita dalla spesa media per consumo pro capite inferiore alla metà della spesa media per consumo su base nazionale. La spesa per consumi va intesa come quella effettuata per beni e servizi acquistati o auto-consumati dalle famiglie per il soddisfacimento dei propri bisogni. Tale nozione, pertanto, connota coloro che pur avendo la possibilità di soddisfare i propri bisogni essenziali (intesi, con essi, il minimo necessario per la sopravvivenza) non riescono a utilizzare, invece, tutti i servizi pubblici disponibili.

I dati Istat per l’anno 2019 raccontano che le famiglie residenti in Italia che vivono in condizione di povertà relativa sono quasi 3 milioni, pari all’11,4 per cento delle famiglie residenti, per un totale complessivo di quasi 8 milioni 800mila individui, vale a dire il 14,7 per cento dell’intera popolazione. La soglia della povertà relativa individuata convenzionalmente per una famiglia di due persone e rappresentata dalla spesa media mensile pro capite, corrisponde a 1.094,95 Euro: ciò significa che le famiglie di due persone che sostengono una spesa media mensile pari o inferiore a tale soglia sono classificate come povere. Così, per le famiglie più numerose, il valore della soglia di povertà si individua in relazione a una scala di equivalenza.

Dai dati sulla povertà relativa risulta che questa riguarda, soprattutto, le famiglie del Mezzogiorno (dove l’incidenza è del 21,1 per cento a fronte del 7,3 per cento del Centro Italia e al 6,8 per cento del Nord Italia); rispetto al 2018, tuttavia, si riscontra un aggravamento del fenomeno della povertà nel Nord, in particolare nei piccoli Comuni.

Risulta inoltre che sono le famiglie più numerose a presentare livelli di povertà più elevati: è “povero” il 34,4 per cento delle famiglie italiane con tre o più figli minori (contro l’11,4 per cento della media nazionale); la percentuale scende, invece, al 14,1 per cento per le famiglie mono-genitore, all’8,2 per cento per le famiglie di due componenti e al 9,5 per cento per le famiglie in cui sono presenti due o più anziani.

L’incidenza di povertà relativa aumenta fortemente (di ben tre volte) per le famiglie con stranieri: è infatti del 29,1 per cento per le famiglie con almeno uno straniero e del 30,5 per cento per le famiglie di soli stranieri, a fronte del 9,7 per cento per le famiglie di soli italiani.

La condizione di povertà risulta peggiore in concomitanza con livelli bassi di istruzione o bassi profili professionali. È più alta, ovviamente, nelle famiglie con persona di riferimento in cerca di occupazione (30,7 per cento) mentre, tra gli occupati, lo è nelle famiglie con persona di riferimento in posizione di operaio o assimilato (17,4 per cento), e scende se la persona di riferimento è un lavoratore dipendente in posizione diversa da imprenditore o libero professionista (9,4per cento).

La povertà assoluta.

La nozione di povertà assoluta indica la situazione del singolo o della famiglia caratterizzata dall’incapacità di procacciarsi i mezzi necessari per vivere. A differenza dalla nozione di povertà relativa, la povertà assoluta prescinde dal riferimento alla situazione generale e degli altri, individuando un dato assoluto che corrisponde alla incapacità di vivere per assenza dei mezzi economici necessari: tale nozione assomiglia, pertanto, a quella di “indigenza” di cui all’articolo 32 della Costituzione. In particolare, essa è definita con riferimento al valore monetario di un paniere di beni e servizi essenziali (comprensivo della componente alimentare, quella relativa alle spese di abitazione, una quota di ammortamento per i principali beni durevoli e una quota residuale relativa alle spese per vestiario, attività ricreative, trasporti, etc.) in grado di assicurare alle famiglie uno standard di vita che eviti forme di esclusione sociale.

Secondo le stime preliminari Istat, nel 2020 sono 335mila le famiglie in più rispetto al 2019 a passare sotto la soglia della povertà assoluta: si tratta di oltre 2 milioni di famiglie, il 7,7per cento, per un numero complessivo di individui pari a circa 5,6 milioni, oltre 1 milione in più rispetto all’anno precedente. Nel 2020 peggiora il dato relativo alle famiglie con persona di riferimento occupata (per cui l’incidenza di povertà assoluta cresce al 7,3 per cento rispetto al 5,5 per cento del 2019). Inoltre, si registra un calo record della spesa mensile per consumi che torna ai livelli del 2000 (2.328 Euro) scendendo del -9,1% rispetto al 2019; le uniche spese che rimangono stabili sono quelle alimentari e per l’abitazione, mentre si registra una diminuzione drastica delle spese relative a tutti gli altri beni e servizi (-19,4 per cento).

È confermato, poi, un dato che ancora si discosta dal pensiero comune: sono le famiglie di giovani, infatti, le categorie più a rischio, laddove la povertà familiare ha un andamento decrescente all’aumentare dell’età della persona di riferimento. Se la persona di riferimento ha un’età compresa tra i 18 e i 24 anni, infatti, il rischio di povertà assoluta è dell’8,9 per cento, mentre scende al 5,1 per cento nel caso in cui tale persona abbia più di 65 anni.

Le categorie più colpite dalla povertà assoluta sono i minori (1 milione e 346mila, 209mila in più rispetto all’anno precedente) e gli stranieri (con un’incidenza pari al 25,7 per cento rispetto al 6 per cento per gli italiani). Nel 2020, tuttavia, l’incidenza di povertà assoluta peggiora sia per le famiglie con stranieri (dove cresce del +3,7 per cento) sia per le famiglie di soli italiani (dove cresce del +5,1 per cento). Se è vero, pertanto, che si riduce la quota di famiglie con stranieri sul totale delle famiglie povere (da oltre il 30 per cento al 28,7 per cento), tale dato non mostra un miglioramento della condizione delle famiglie con stranieri, bensì un peggioramento dello stato di povertà assoluta nelle famiglie composte da soli italiani (circa l’80 per cento delle 335mila famiglie povere in più nel 2020).

L’incidenza di povertà assoluta, inoltre, varia molto a seconda del titolo di godimento dell’abitazione posseduta: la percentuale di povertà assoluta, infatti, è maggiore per coloro che hanno un contratto di locazione.

La lotta alla povertà come politica pubblica

Nonostante la dimensione del fenomeno della povertà sia cospicua, nel 2019 si era registrato un leggero miglioramento rispetto agli anni precedenti, senza che, però, i valori divenissero mai inferiori rispetto a quelli anteriori alla crisi del 2008.

Nel 2020, però, a seguito della pandemia, la povertà raggiunge valori record, i più alti dal 2005, e solo perché il 2005 è l’anno a partire dal quale è disponibile la serie storica per questo indicatore.

È, tuttavia, interessante constatare come le misure adottate dal governo a sostegno dei cittadini (reddito di cittadinanza, reddito di emergenza, etc.) potrebbero aver avuto effetti positivi: lo dimostrerebbe il fato che molte delle famiglie che proprio nel 2020 hanno scavalcato la soglia di povertà, siano comunque riuscite a mantenere una spesa per consumi non troppo lontana da tale soglia.

È necessaria, però, una precisazione: l’intervento pubblico non è rivolto a tutte le categorie di poveri, ma soltanto a quella frazione di poveri contemplata dalle stime annuali dell’Istat.

Quella considerata dal legislatore è, pertanto, soprattutto la c.d. “povertà integrata” – relativa a persone che vivono in famiglia – mentre lo è meno la c.d. “povertà marginale” – persone senza fissa dimora, che versano in condizioni di povertà estrema, esclusi e disadattati non inseriti nella rete sociale.

Concetto diverso dalla povertà assoluta è, infatti, quello della “esclusione sociale” che denota situazioni nelle quali all’estremo bisogno economico si accompagna la mancanza di condizioni di carattere culturale e sociale (come ad esempio l’alfabetismo, l’essere capace di colloquiare in un ordinato contesto sociale, di accedere ai mezzi di comunicazione e ai canali formativi e alle politiche di occupazioni, etc.) tali da comportare l’emarginazione della persona o della famiglia dal contesto sociale nel quale è inserita.

Così accade che situazioni di estrema povertà non necessariamente comportino l’esclusione sociale (per esempio se si tratta di situazioni di povertà temporanea), mentre situazioni non ascrivibili a quelle di povertà assoluta né, in qualche caso, a quelle di povertà relativa, diano invece luogo ad esclusione sociale.

Un quadro così diversificato rende assolutamente necessaria una impostazione delle politiche di lotta alla povertà diversificata quanto a strumenti utilizzabili: strumenti di carattere esclusivamente economico-finanziario non possono, in via generale, essere considerati sufficienti, dal momento che non tengono conto del fatto che la povertà sia un fenomeno multidimensionale.

Pertanto, le politiche di lotta alla povertà non possono non tenere conto del fatto che alle difficoltà materiali – le più evidenti- si affianchino diversi altri indicatori di vulnerabilità e disagio, che tengono conto di aspetti sociali, culturali, esistenziali (come, per esempio, il livello di istruzione, l’accesso ai servizi educativi e sanitari, i processi migratori, etc.).

Gli strumenti economici devono, quindi, essere accompagnati da misure mirate al fine di dar luogo a inclusione sociale, misure a loro volta diversificate a seconda delle situazioni personali, ambientali e sociali.

Per una disamina più completa si rimanda al saggio “La lotta alla povertà come politica pubblica” di V. Cerulli Irelli e A. Giurickovic Dato, pubblicato sulla Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche e consultabile online.

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