L’ultimo libro che gli regalai, non l’ha mai neppure aperto.

Era uno dei primi segni di quella lunga, inesorabile e devastante malattia neurologica che avrebbe afflitto mio padre, Francesco Guizzi, nell’ultima, dolorosissima, fase della sua vecchiaia.

Eppure, Anatomia di un istante – saggio/romanzo che rievocava il momento in cui Adolfo Suarez, il primo capo del governo della Spagna democratica postfranchista, trovò «il coraggio della dignità» di rimanere in piedi nel suo scranno parlamentare, mentre un colonnello golpista faceva irruzione alle Cortes, esplodendo alcuni colpi di pistola – mi sembrava, per chi lo aveva ricevuto in dono, una lettura addirittura “necessaria”.

C’erano, infatti, in quelle pagine moltissimi dei “fili” che hanno intessuto la fitta trama dell’esistenza di mio padre.

Innanzitutto, l’impegno totale che Francesco Guizzi profuse per il radicamento della democrazia nel nostro Paese, fin da quando giovanissimo – aveva appena sedici anni, nel 1949 – decise di iscriversi al partito socialista, per lui una seconda famiglia, che non avrebbe mai abbandonato.

Aderì alla corrente “autonomista” di Pietro Nenni, nella convinzione (convalidata dalla storia, quarant’anni dopo, con il crollo del muro di Berlino e la fine dei regimi comunisti) che l’unica via possibile, per la realizzazione di una maggiore giustizia sociale, fosse soltanto nel rispetto delle libertà allora definite, sprezzantemente, “borghesi”.

La militanza politica – negli anni della gioventù intensissima, tanto da divenire uno dei due cosegretari nazionali dei giovani socialisti (l’altro era Bettino Craxi) – fu, per mio padre, sempre e soltanto esercizio di virtù civiche e, come per tanti uomini e donne della sua generazione, autentica passione intellettuale, a tutto tondo.

Tanto che agli studi universitari di storia del diritto romano – che pure cominciava a compiere, e ai quali si sarebbe successivamente dedicato con importanti opere (fu autore di scritti sul sacerdozio di Vesta e sul Pontifex Maximus, ma soprattutto, a più riprese, sul principato di Augusto) – accompagnò, sempre, una pluralità di interessi culturali, che fece coesistere con il suo lavoro di accademico.

Un intellettuale di tipo nuovo

Cercò di essere – come si diceva in quella feconda stagione della nostra neonata Repubblica – un “intellettuale di tipo nuovo”. Fu così, pertanto, che negli anni della sua formazione – quando nella Napoli degli anni Cinquanta poteva confrontarsi con intellettuali del calibro di Vittorio de Caprariis, Francesco Compagna e Giuseppe Galasso (per ricordarne solo alcuni) – egli si dedicò, tra l’altro, anche alla critica letteraria.

Tanto da stabilire un carteggio, intenso e profondo, con Elio Vittorini, che – ponendolo di fronte ad uno dei tanti bivi che costellano la vita degli individui, come mio padre, depositari di molti talenti – gli propose di abbandonare gli studi giuridici, per trasferirsi a Milano e collaborare, stabilmente, al suo Politecnico.

Ma il libro che gli avevo donato, nel tracciare un suggestivo parallelismo tra la vita di Suarez e l’esistenza, solo cinematografica, del generale della Rovere (l’uomo politico spagnolo era nato franchista, ma, come il protagonista di quel film, aveva fatto propria la battaglia per la democrazia, fin sulla soglia dell’estremo sacrificio), rimandava, oltre che all’impegno politico, ad un’altra grande passione di mio padre: quella per la decima musa.

Francesco Guizzi, infatti, fu animatore, per anni, del napoletano circolo del cinema, dove – con Renato Caccioppoli (il “matematico napoletano”, alla cui figura Mario Martone ha dedicato uno dei suoi film più intensi) e Riccardo Napolitano, il fratello del futuro presidente della Repubblica – ebbe l’onore di curare proiezioni e dibattiti, all’epoca immancabili, alla presenza di registi del calibro di Rossellini, De Sica, Fellini, Germi ed Antonioni.

Il libro che non ha potuto leggere

Ho sperato, a lungo, che mio padre potesse dedicarsi alla lettura dello scritto che gli avevo regalato. Perché mi sarebbe piaciuto sapere – da lui che, come storico del mondo antico, ha sempre diffidato della possibilità di fare storia della contemporaneità (“si è troppo immersi nelle passioni del proprio tempo, per poter valutare in modo obiettivo eventi e persone”, diceva) – se quella sfida, nel caso della biografia di Suarez, non fosse stata, invece, vinta.

Ma soprattutto ero curioso di vedere come avrebbe reagito alla scelta dell’autore di escludere, deliberatamente, dalle fonti della propria opera, gli atti del processo per alto tradimento che fu celebrato a carico del militare golpista, allorché costui fallì miseramente il putsch che aveva ordito.

Mio padre, infatti, deprecava la tendenza – inarrestabile, negli ultimi anni – ad esaminare ogni fenomeno, soprattutto quelli politici, attraverso l’unica lente della cronaca giudiziaria.

Fu, infatti, sempre animato dalla consapevolezza che la weberiana “etica della responsabilità” non necessariamente coincide con quella del “dover essere”, e che la pretesa di sovrapporle finisce, talvolta, col mandare assolti da gravi responsabilità politiche chi scampa all’affermazione della responsabilità penale, o, all’opposto, a conferire a quest’ultima un’inaccettabile curvatura etica.

La corte costituzionale e il Csm

In lui prevalse sempre il sereno distacco di cui è fatta l’analisi storica, sicché quando fu chiamato a svolgere funzioni giudiziarie – un’esperienza vissuta in diverse occasioni, partecipando dapprima, sul finire degli anni Settanta, come giudice aggregato, all’unico processo penale costituzionale (all’epoca non esisteva, infatti, il “Tribunale dei Ministri”), quello relativo allo “scandalo Lockheed”, e poi, dal 1981 al 1985, quale componente “laico” della sezione disciplinare del Csm, presiedendo i delicatissimi giudizi a carico dei magistrati iscritti alla loggia P2, e, infine, quale giudice delle leggi, allorché il parlamento lo elesse alla Corte costituzionale nel 1991 – gli fu quasi naturale far coesistere “il giudice e lo storico”, per riprendere il titolo di un celebre scritto di Piero Calamandrei. “L’accademia ti ha scippato alla magistratura”, gli aveva detto un giorno Vladimiro Zagrebelsky, suo collega al Csm.

Visse l’esperienza di giudice, soprattutto quella presso la Corte costituzionale, con grande rigore, cercando, per quanto possibile, di sottrarsi da ogni tipo di condizionamento, anche inconsapevole, come volle plasticamente rappresentare restituendo – sebbene con enorme dispiacere – la tessera del partito in cui aveva militato per oltre quarant’anni (e di cui era stato anche parlamentare), conscio che il servizio più alto nelle Istituzioni, specie quelle di garanzia, non tollera neppure il sospetto di partigianerie e faziosità.

E come giudice costituzionale ha legato il proprio nome a sentenze di grande rilievo nella giurisprudenza della Corte: il divieto di estradizione giudiziaria, in caso di reato sanzionato con la pena di morte nello Stato richiedente; l’illegittimità della reiterazione delle istanze di rimessione del processo penale (pronuncia che è stato il seme da cui ha tratto origine l’elaborazione dei principi sulla durata ragionevole del processo e sul divieto di abuso dello stesso); la necessità di vagliare secondo criteri di proporzionalità e ragionevolezza i provvedimenti “emergenziali” dell’autorità governativa (e la terribile esperienza della pandemia, in cui siamo ancora immersi, ne ha dimostrato, vieppiù, l’importanza), la declaratoria di illegittimità costituzionale del reato di mendicità c.d. “invasiva”, pronuncia, quest’ultima, della quale è sempre stato molto fiero, avendo trascorso la sua intera vita nel tentativo di dare aiuto agli “ultimi”.

Queste riflessioni mi sono tornate in mente domenica scorsa, quando – recatomi nella casa dei miei genitori, in attesa di dargli l’ultimo saluto, prima che si ricongiungesse all’amata compagna della sua vita – ho trovato “Anatomia di un istante”, ancora impacchettato nel suo cellophane.

E, allora, improvvisamente ho compreso: quella lettura, rimasta sospesa per anni, in verità, più che necessaria a lui, era indispensabile per me.

Ma non perché papà potesse spiegarmi le tante cose che, con il suo sguardo d’aquila, avrebbe sicuramente meglio compreso, quanto, piuttosto, perché potesse scorrere solo l’ultima pagina del libro.

Nella quale l’autore, con poche emozionanti parole – nel rievocare le infinite discussioni e le immancabili contrapposizioni con cui un figlio, nell’ansia di sentirsi “grande”, cerca di rivendicare, a piè sospinto, la propria autonomia di giudizio e capacità di valutazione – rendeva un delicato omaggio al proprio genitore. Parole alle quali anche io – raggiunta e superata la stagione della piena maturità, quando, purtroppo, le convenzioni sociali impediscono ai figli di abbracciare i propri genitori, di buttarsi al loro collo per l’entusiasmo di vederli ritornare a casa, o di aggrapparsi, disperatamente, alle loro gambe, nel tentativo di non lasciarli andare via – volevo, allora, affidare (ed oggi, finalmente, affido) il messaggio definitivo per mio padre: ovvero che sapesse «che avevo finalmente capito, che avevo capito che non avevo del tutto ragione e lui non si sbagliava del tutto», ma soprattutto «che io non sono migliore di lui, né mai lo sarò».

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