Uno dei nomi meglio riusciti negli ultimi anni è quello assegnato all’inchiesta sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Valle D’Aosta. L’operazione era denominata “Geenna”, dal nome della valle del racconto biblico in cui si praticava il culto del dio Moloch, al quale venivano sgozzati neonati per sacrificio.
Dal latino a richiami cinematografici fino ai riferimenti fiabeschi e religiosi, dagli anni Novanta le inchieste giudiziarie hanno impressionato l’opinione pubblica soprattutto grazie alla loro denominazione. Che, nei casi più riusciti, sono anche rimaste nel gergo comune. Ora, però, il decreto legislativo approvato in consiglio dei ministri ha messo fine all’estro inventivo della polizia giudiziaria e dei magistrati, prevedendo che «tanto nei comunicati ufficiali quanto nelle conferenze stampa è vietato assegnare ai procedimenti penali pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza». Questo perchè le denominazioni dal retrogusto accusatorio hanno l’effetto di enfatizzare mediaticamente le inchieste prima ancora che si siano concluse, ledendo il diritto degli indagati ad essere considerati innocenti fino a sentenza definitiva.

La scuola milanese

La scuola più prolifica è quella da cui si è anche originato il fenomeno: la procura di Milano. Era il 1989 quando la pm Ilda Boccassini condusse l’indagine “Duomo connection”, la prima ad essere portata a termine sulle infiltrazioni mafiose nel capoluogo lombardo. Poi è stato il momento della più famosa: Mani pulite, sul sistema tangentizio legato ai partiti della prima repubblica. Il pool di pm e in particolare Antonio Di Pietro lo scelse riprendendo una locuzione usata dal deputato del Pci Giorgio Amendola in un’intervista di vent’anni prima al Mondo, in cui diceva che «le nostre mani sono pulite perché non le abbiamo mai messe in pasta». Per arrivare ad oggi, con i vari filoni dell’inchiesta “Ruby” contro Silvio Berlusconi che riprende il nome d’arte di Ruby Rubacuori della diciassettenne marocchina Karima El Mahroug.

Da nord a sud, l’usanza di attribuire alle inchieste etichette più allusive rispetto al freddo numero di protocollo prolifera. Notissime sono le inchieste dell’ex magistrato Luigi De Magistris, da “Poseidone”, che riguardava il presunto utilizzo illecito di fondi europei destinati a opere di depurazione idrica, a “Why not” sulla presunta esistenza di un gruppo di potere trasversale tenuto insieme da una loggia massonica finalizzata a influire sull’assegnazione degli appalti.

Oppure quelle di Henry John Woodcock: il “Vip gate” che accusava alcuni personaggi famosi di associazione per delinquere per la turbativa di appalti; l’inchiesta “Iene 2", sui presunti legami tra criminalità e politica nella gestione degli appalti in Basilicata o l’inchiesta “P4” su un presunto sistema informativo parallelo che avrebbe dovuto assomigliare a quello della loggia Propaganda 2 di Licio Gelli.

In Calabria, ha fatto scuola invece l’inchiesta “Stige” condotta dal pm Nicola Gratteri nel 2018 contro la ‘ndrangheta, che prende il nome dal fiume infernale. Oppure “Lande desolate”, contro l’ex presidente della regione Mario Oliverio, poi assolto.

In Emilia, invece, ad aver catturato l’immaginario collettivo è l’inchiesta “Angeli e demoni” del caso Bibbiano, sulle presunte sottrazioni di minori alle famiglie. Prima ancora, è stato il caso del processo “Aemilia” sull’infiltrazione della ‘ndrangheta, che riprendeva il nome utilizzato dai romani per colonizzare la pianura padana. 

Nella Capitale, infine, i giornali hanno costruito facili titoli grazie all’inchiesta “Mondo di mezzo”, che riprendeva la locuzione utilizzata da uno degli imputati nelle intercettazioni per descrivere il livello a cui si muoveva: a metà tra quello “di sopra” della politica e quello “di sotto”, della delinquenza.

L’elenco non è esaustivo, ma il genere è ricco: basta consultare l’archivio dei comunicati stampa della polizia di stato o dei carabinieri per trovare traccia dei nomi suggestivi. Da “Super santos” per un’inchiesta con imputati brasiliani a “Pecunia non olet” per un’indagine su presunte truffe. 

La denominazione, del resto, è quasi sempre opera della polizia giudiziaria che la usa come intestazione delle informative. Da lì poi viene divulgata durante le conferenze stampa e, anche se non viene stampata sul fascicolo del procedimento, non è raro leggerla anche nei verbali e negli atti del pubblico ministero. Quella che per gli inquirenti sembra essere una innocua semplificazione lessicale, viene oggi considerata dalla legge accanimento anticipato nei confronti degli indagati.

Certamente, la denominazione numerica del fascicolo o con il nome dell’indagato o degli indagati (come si legge nelle intestazioni formali) renderà meno agevole la comunicazione dell’indagine. Anche questa, però, ora dovrà seguire delle regole più stringenti fissate dal decreto legislativo, a partire dal fatto che può avvenire solo «quando ricorrono ragioni rilevanti di interesse pubblico» e sotto il controllo del procuratore generale presso la corte d’Appello. Secondo la previsione, ogni anno andrà presentata una relazione alla Corte di cassazione in merito al metodo di divulgazione delle inchieste, che potrà costituire anche la base per eventuali procedimenti disciplinari.

Se verrà rispettato, il divieto di utilizzo di nomi allusivi mette fine a una delle prassi che più hanno alimentato il cosiddetto marketing giudiziario delle indagini, contribuendo alla mediatizzazione della giustizia e dei processi. Di cui ci si ricordano i nomi allusivi ma non l’esito, soprattutto se di assoluzione.

 

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