Già nel 1987, con sentenza n. 561, la Corte Costituzionale affermava: "Essendo la sessualità uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, il diritto di disporne liberamente è senza dubbio un diritto soggettivo assoluto, che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l'art. 2 Cost. impone di garantire".

Era, invece, il 2012 quando il tribunale di sorveglianza di Firenze, con l’avallo della procura generale competente, interpellava la Corte Costituzionale chiedendo che fosse dichiarato illegittimo l’art. 18 dell’ordinamento penitenziario laddove prevede la costante presenza vigile del personale penitenziario agli incontri del recluso con i propri congiunti e, di fatto, esclude l’espressione di qualsivoglia sessualità.

La prescrizione, per il tribunale, costituiva con evidenza una lesione del diritto ad una carcerazione umana e non degradante rientrando il diritto della persona ristretta ad avere rapporti sessuali con il coniuge o con il partner, tra i diritti inviolabili dell’uomo, secondo anche le raccomandazioni del Consiglio d’Europa: diritti limitati, ma non annullati, dalla condizione di restrizione della libertà personale.

“La Raccomandazione n. 1340(1997) del Consiglio d’Europa, sugli effetti sociali e familiari della detenzione, adottata dall’Assemblea generale il 22 settembre 1997, all’art. 6 invita, infatti, gli Stati membri a «migliorare le condizioni previste per le visite da parte delle famiglie, in particolare mettendo a disposizione luoghi in cui i detenuti possano incontrare le famiglie da soli». In modo ancora più puntuale, la successiva Raccomandazione R. (2006) sulle regole penitenziarie europee, adottata dal Comitato dei ministri l’11 gennaio 2006, prevede, con la regola n. 24.4, che «le modalità delle visite devono permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali»: concetto – quello di «normalità» – che evoca anche i profili affettivi e sessuali, come emerge dal commento a detta regola, ove si precisa che, «ove possibile, devono essere autorizzate visite familiari prolungate», le quali «consentono ai detenuti di avere rapporti intimi con il proprio partner», posto che «le “visite coniugali” più brevi autorizzate a questo fine possono avere un effetto umiliante per entrambi i partner».

Anche la Raccomandazione del Parlamento europeo del 9 marzo 2004, n. 2003/2188(INI), sui diritti dei detenuti nell’Unione europea, nell’invitare il Consiglio a promuovere, sulla base di un contributo comune agli Stati membri dell’Unione europea, l’elaborazione di una Carta penitenziaria europea comune ai Paesi membri del Consiglio d’Europa, menziona specificamente, all’art. 1, lettera c), tra i diritti da riconoscere ai detenuti, «il diritto ad una vita affettiva e sessuale prevedendo misure e luoghi appositi». Sebbene non immediatamente vincolanti per lo Stato italiano e tali, comunque, da lasciare «una certa flessibilità» nella loro attuazione, le regole ora ricordate indicherebbero, peraltro, chiaramente quale sia la tendenza del «regime penitenziario europeo».

La pronuncia della Consulta, n. 301, intervenuta nel dicembre del 2012, rassegnava, nella sostanza, la propria incompetenza a definire, senza l’intervento del legislatore, un ambito tanto complesso e delicato che involge il tema dell’ordine e della sicurezza e richiede l’estrinsecazione chiara di termini e di modalità di accesso al diritto a vivere, pur reclusi, la propria sessualità, l’individuazione dei relativi destinatari, interni ed esterni, la definizione dei presupposti comportamentali per la concessione delle “visite intime”, la specificazione del loro numero e della loro durata, la predisposizione dei locali, la determinazione delle misure organizzative. Nulla di fatto, dunque.

Nel 2016, con un'imponente operazione di raccordo di esperti nel settore della Giustizia, si è dato il via agli Stati Generali dell'esecuzione penale. Tra i 18 tavoli tematici, vi era quello denominato "Mondo degli affetti e territorializzazione della pena": riconoscimento del valore assoluto della vita affettiva del detenuto come anello fondante il percorso di reinserimento sociale.

Tra gli obiettivi enunciati: tenendo anche in considerazione le esperienze straniere, "il problema del se ed eventualmente del come assicurare all'interno del carcere uno spazio e un tempo in cui la persona detenuta possa vivere la propria sessualità ".

Le proposte del Tavolo 6

Per i colloqui intimi, il Tavolo 6 aveva proposto modifiche normative volte ad introdurre il nuovo istituto giuridico della “visita”, che si distingue dal “colloquio”, già previsto dalla normativa, poiché garantisce al detenuto incontri privi del controllo visivo e/o auditivo da parte del personale di sorveglianza. Si legge nella relazione: "Il gruppo ha ipotizzato la creazione di un nuovo istituto giuridico costituito dalla “visita” che può essere effettuata all’interno del carcere tra il detenuto e le persone con cui è autorizzato a fare colloquio. La visita si distingue dal “colloquio”, già previsto dalla normativa, poiché garantisce l’esercizio del diritto all’affettività del detenuto e quindi la possibilità di incontrarsi con chi è autorizzato ad effettuare i colloqui, senza però che durante lo svolgimento della visita vi sia un controllo visivo e/o auditivo da parte del personale di sorveglianza.

I caratteri connotanti della visita sono: può essere effettuata con tutte le persone che vengono autorizzate ad effettuare colloqui. In tal senso si è scelto di non fare distinzioni tra familiari, conviventi e le cc. dd. “terze persone”, poiché si tratta di garantire il diritto della persona detenuta alla cura dei rapporti affettivi, senza limitarli alla sfera familiare o coniugale; le visite si svolgono in apposite “unità abitative” collocate all’interno dell’istituto, adeguatamente separate dalla zona detentiva; la loro manutenzione e pulizia è affidata ai detenuti lavoranti individuati dalla direzione; la durata di una visita può andare da un minimo di quattro ore ad un massimo di sei “laddove vi sia la disponibilità di spazi sufficienti a garantirla” (v. proposta allegata di modifica art. 18 O.P.); si prevede il diritto di ogni detenuto ad almeno una visita ogni due mesi, con un avvio sperimentale, entro sei mesi dall’entrata in vigore della modifica di legge, in cinquanta istituti penitenziari. Seguirà la messa a regime entro due anni in tutti gli istituti.

Su questo tema insisteva l’ultima domanda del questionario indirizzato agli istituti a riguardo della disponibilità di spazi interni per garantire il diritto all’affettività. Quasi tutte le direzioni che hanno risposto al questionario comunicano che non vi è attualmente alcuna disponibilità, ma ad un’analisi più contestualizzata si può sostenere che almeno nel 50% dei casi vi sono le aree utili per andare a collocare ex novo le cc. dd. “unità abitative”, con l’insediamento di prefabbricati negli istituti di più recente definizione (costruiti dagli anni ’80 in poi) e con le ridefinizioni di alcuni spazi esistenti negli istituti più vecchi che spesso non dispongono di aree aperte da recuperare.

 Si è discusso del rapporto tra spazi ricavabili, numero di detenuti ipoteticamente presenti in una struttura e organizzazione dei servizi per garantire il diritto all’affettività. In proposito le autorizzazioni all’accesso per le visite si sovrappongono a quelle per i colloqui; pertanto, su questo aspetto non vi sono elementi di criticità. È invece il rapporto tra spazi e numero di detenuti che ha spinto il gruppo, almeno in una prima fase di applicazione della legge, a fissare il diritto minimo a una visita ogni due mesi. Infatti soprattutto negli istituti più grandi appare estremamente problematico abbreviare il sopracitato range; si pensi ad un istituto con una media di mille detenuti, che disponga di dieci unità abitative e che con un servizio di ricezione di otto ore per cinque giorni a settimana potrebbe teoricamente garantire venti visite al giorno, 100 a settimana e circa 400 al mese".

Particolare attenzione veniva rivolta all'esperienza spagnola: "sia nei due Istituti della Catalogna, che nell’istituto penitenziario di Madrid, i detenuti godono di 4 colloqui ordinari più due o tre colloqui familiari o intimi. Per i colloqui familiari, di non più di 4 persone, sono allestite salette con poltroncine e un tavolino. La sorveglianza visiva è prevista. Le stanze per gli incontri intimi, della durata varia da un’ora e mezza a tre ore, contengono un letto matrimoniale e una sedia. Sono fornite di bagno e di un campanello di allarme. Non è prevista alcuna sorveglianza. I partner possono essere anche conviventi, se non dichiarati occorre una preventiva frequenza di due mesi. Sono ammessi i rapporti omosessuali”. Numerosi i paesi in cui è concesso ai detenuti che hanno avuto una condanna lunga di beneficiare di qualche ora d'amore per poi ritornare nelle proprie celle.

In Belgio e in Francia sono in fase di sperimentazione delle abitazioni nelle quali il condannato può trascorrere 48 ore con la propria famiglia. In Germania e in Svezia sono stati pensati e realizzati dei miniappartamenti dove il detenuto è autorizzato a vivere per alcuni giorni con la propria famiglia. In Olanda le visite avvengono in locali appositi o anche in cella. La Danimarca autorizza visite settimanali di un'ora e mezza. In Canada le visite fino a 72 ore avvengono dal 1980 in apposite roulotte esterne al carcere. In Finlandia e Norvegia c' è un sistema di congedi coniugali. In Croazia e Albania, invece, gli istituti di pena concedono incontri non controllati della durata di quattro ore. In America, fin dagli anni '90, in un campo di lavoro nel Mississippi ogni domenica i ristretti hanno la possibilità di ricevere in visita una sex worker (lavoratrice del sesso). Le visite intime sono ammesse anche in India, Israele e Messico.

Nel ddl n. 4368, approvato dalla Camera dei deputati il 29 luglio 2015, di modifica del codice penale, di procedura penale, dell'ordinamento penitenziario, veniva previsto, tra gli obiettivi della delega: "il riconoscimento del diritto all'affettività delle persone detenute e internate e disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio". Un segnale di attenzione ancora timido che doveva tradursi in disposizioni normative che riconoscessero l'esistenza di un diritto e garantissero la piena dignità delle persone detenute nella fruizione di esso, nella sola direzione possibile, quella voluta dal ministro Orlando nell'avventura degli Stati Generali sull'Esecuzione Penale: l'attuazione (finalmente!) dell'art. 27 della Costituzione.

La Commissione di esperti nominata per tradurre in norme gli impeti di garanzia della promessa riforma, aveva proposto una modifica dell'art. 18 O.P. introducendo i commi 3 bis, ter e quater: "Ai detenuti e agli internati, ad eccezione di quelli sottoposti al regime previsto dall'art. 41 bis, co. II O.P., sono consentiti incontri periodici di durata non inferiore alle tre ore consecutive con il coniuge, con la parte dell'unione civile, con il convivente e con persone legate da continuativi rapporti affettivi desumibili anche dai colloqui e dalla corrispondenza, senza controllo visivo e auditivo, in locali idonei a consentire relazioni intime"; " l'autorizzazione agli incontri è concessa dal direttore, su richiesta dell'interessato, acquisite le necessarie informazioni e, per gli imputati, il nulla osta del giudice individuato ai sensi dell'art. 11 c. II. E' data la precedenza a coloro che non possono coltivare la relazione affettiva in ambiente esterno. Possono autorizzarsi incontri con frequenza ravvicinata per coloro che, a causa della distanza o delle condizioni soggettive della persona a loro affettivamente legata, non possano fruirne con cadenza regolare"; "l'autorizzazione è negata quando l'interessato ha tenuto una condotta tale da far temere comportamenti prevaricatori o violenti ovvero quando sussistono elementi concreti per ritenere che la richiesta abbia finalità diverse dal coltivare le relazioni affettive".

Le persone escluse

Numerose le difficoltà affrontate (a chi riconoscere il diritto? Alle coppie di fatto, alle persone sposate, a chi può dimostrare, anche con scambi epistolari, una frequentazione stabile, ai legami omosessuali? Associarlo a un buon comportamento intramurario? Come contenere il rischio che si consumino abusi?) e le resistenze riscontrate (l'opposizione strenua dei sindacati di polizia penitenziaria che tuonavano "carceri come postriboli", un sentire comune che relega il sesso alla dimensione ludica e peccaminosa inconciliabile con l'istanza punitiva della reclusione).

Dolorosa l'esclusione delle persone ristrette nel regime derogatorio di cui all'art. 41 bis O.P., tanto da rafforzare il convincimento che tale norma sia incostituzionale perché, coerentemente ai suoi scopi annunciati, si traduce nella pacifica negazione di un diritto primario della persona. È sconcertante l'affermazione che esista un diritto assoluto e costituzionalmente garantito e, al contempo, che ci sia una tipologia di detenuti che non possono fruirne.

Che un diritto possa essere contratto o compresso, d'altronde, non implica affatto che lo stesso non esista o che lo stesso debba essere degradato a mero interesse legittimo, ma soltanto che in un contemperamento di valori di rango costituzionale, l'interesse sociale abbia imposto il prevalere di uno a dispetto dell'altro. E, del resto, la carcerazione è gravissima limitazione della libertà personale ma certo nessuno porrebbe in dubbio che la libertà personale sia il più alto, il più protetto dei diritti fondamentali.

L’importante modifica - che si scontrava con la formula di "invariabilità finanziaria" che costituiva, in vero, un ostacolo insormontabile stante l'ovvia esigenza di costruire in tutte le carceri locali adeguati - si è spenta, tuttavia, contro un muro giustizialista che ha portato lo stesso governo che la aveva voluta ad arretrare e ad arrestarsi.

Nonostante le ragioni di inammissibilità delle questioni, la sentenza n. 301 del 2012 non mancò di sottolineare come esse evocassero «una esigenza reale e fortemente avvertita, quale quella di permettere alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale», esigenza che – si precisò – non trova una risposta adeguata nell’istituto dei permessi premio, «la cui fruizione – stanti i relativi presupposti, soggettivi ed oggettivi – resta in fatto preclusa a larga parte della popolazione carceraria».

La sentenza della Consulta del 2024

Oggi, dopo dodici anni di sostanziale silenzio normativo, con sentenza n. 10 del 2024, la Consulta torna sul tema, ribadisce che si tratta di materia di diritti fondamentali perché connessi all’essenza della persona nel suo dispiegarsi nelle relazioni sociali ove si sviluppa la sua personalità e dichiara l’incostituzionalità dell’art. 18 dell’ordinamento penitenziario “nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie”.

Le ragioni di inammissibilità prospettate nella precedente e ormai datata pronuncia non sussistono più in un panorama normativo mutato che dà più valore all’esigenza della persona ristretta di vivere i rapporti affettivi in un alveo di intimità, pur preservando le ragioni di sicurezza interna degli istituti di pena.

L’ordinanza di rimessione alla Consulta del magistrato di sorveglianza di Spoleto aveva chiarito che il diritto alla sessualità o, comunque a incontri privati con i propri cari, non può essere relegato alla fruizione del permesso premio che è inaccessibile per tanti detenuti; coloro che sono ancora in custodia cautelare; coloro che non hanno ancora maturato i tempi per fruire dei benefici penitenziari o non hanno ancora raggiunto il livello di trattamento che dà accesso a tale prospettiva.

È improprio, dice coerentemente la Consulta, subordinare ad una logica premiale l’esercizio di un diritto fondamentale.

Occorre ricercare, prosegue, un punto di equilibrio, che, pur senza compromettere la sicurezza e l’ordine ineludibili negli istituti penitenziari, consenta l’apertura di spazi di manifestazione di quella basilare libertà.

“Nel presidiare la regolarità dell’incontro, il controllo a vista sullo svolgimento del colloquio obiettivamente restringe lo spazio di espressione dell’affettività, per la naturale intimità che questa presuppone, in ogni sua manifestazione, non necessariamente sessuale”.

Principi che corrispondono a quelli enunciati dalla giurisprudenza della Corte sul «volto costituzionale» della pena, che è una sofferenza in tanto legittima in quanto inflitta «nella misura minima necessaria»

La prescrizione del controllo a vista sullo svolgimento del colloquio del detenuto con le persone a lui legate da stabile relazione affettiva, in quanto disposta in termini assoluti e inderogabili, si risolve in una compressione sproporzionata e in un sacrificio irragionevole della dignità della persona, quindi in una violazione dell’art. 3 Cost., sempre che, tenuto conto del comportamento del detenuto in carcere, non ricorrano in concreto ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né sussistano, rispetto all’imputato, specifiche finalità giudiziarie”.

Ancora, pone attenzione la Consulta alla inevitabile lesione della dignità del terzo incolpevole prodotta dalla negazione di spazi intimi di affettività che si riverbera sulle persone che, legate al detenuto da stabile relazione affettiva, vengono limitate nella possibilità di coltivare il rapporto, anche per anni, persone estranee al reato e alla condanna, che subiscono dalla descritta situazione normativa un pregiudizio indiretto.

Evidenzia la violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost. nella norma oggetto di censura che nega colloqui sottratti alla vigilanza, “in quanto una pena che impedisce al condannato di esercitare l’affettività nei colloqui con i familiari rischia di rivelarsi inidonea alla finalità rieducativa e di produrre la dissoluzione delle relazioni affettive frustrate dalla protratta impossibilità di coltivarle nell’intimità di incontri riservati, con quell’esito di “desertificazione affettiva” che è l’esatto opposto della risocializzazione.

Consapevole delle difficoltà applicative della nuova disciplina che comporterà la creazione di spazi adeguati agli incontri riservati, la Consulta chiarisce che la durata di essi dovrà essere adeguata all’obiettivo di consentire al detenuto e al suo partner un’espressione piena dell’affettività, che non necessariamente implica una declinazione sessuale, ma neppure la esclude.

“In quanto finalizzate alla conservazione di relazioni affettive stabili, le visite in questione devono potersi svolgere in modo non sporadico (ovviamente qualora ne permangano i presupposti), e tale da non impedire che gli incontri possano raggiungere lo scopo complessivo di preservazione della stabilità della relazione affettiva”.

Condizione per l’esercizio del diritto all’intimità è l’assenza di profili di pericolosità soggettiva afferenti non al titolo di reato, ma alla tenuta dell’orine e della sicurezza degli istituti. “Quanto ai detenuti per reati cosiddetti ostativi - chiarisce la Corte -in linea di principio non sussistono impedimenti normativi che precludano l’esercizio dell’affettività intra moenia, posto che l’ostatività del titolo di reato inerisce alla concessione dei benefici penitenziari e non riguarda le modalità dei colloqui”.

Restano esclusi i ristretti in 41 bis e coloro che sono soggetti a sorveglianza particolare per il tempo di vigenza di tale misura. Resta la ferita di tale regime all’individualità delle persone ristrette. Ma oggi è una bella giornata per lo Stato di Diritto.

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