La cosiddetta “legge Severino” torna sotto attacco: i disegni di legge per riscriverla o abrograrla completamente sono quattro e si sommano al quesito referendario che verrà sottoposto agli elettori in primavera.

A dieci anni dalla sua approvazione, il testo è forse il più odiato dai politici e dagli amministratori locali. Fino ad oggi, però, ha retto ad ogni urto: nessuna maggioranza successiva al governo Monti l’ha modificata ed è passata indenne anche al vaglio della Corte costituzionale, che si è espressa in due occasioni confermandone la costituzionalità.

Come è nata

La “legge Severino”, che prende il nome dall’allora Guardasigilli Paola Severino, è in realtà un decreto legislativo – il 235 del 2012 – dei quattro approvati in seguito a una legge complessiva che doveva riorganizzare i meccanismi di trasparenza amministrativa e le norme penali in materia di corruzione. La legge a monte è un articolato molto complesso, redatto su stimolo europeo e internazionale: secondo un rapporto Ocse, l’Italia risultava come il terzo paese più corrotto, dopo il Messico e la Grecia. Per questo, e in attuazione di una convenzione dell’Onu contro la corruzione, il governo Berlusconi aveva iniziato l’iter di un disegno di legge per prevenire la corruzione nella pubblica amministrazione. In questo ddl – con modifiche sostanziali volute dal governo tecnico “dei professori” - si è innestata la legge di delega al governo promossa da Severino. Una parte della legge era immediatamente modificativa di leggi esistenti (in particolare con la modifica del codice penale nei reati di corruzione e concussione e con l’introduzione del traffico di influenze illecite), un’altra prevedeva deleghe al governo.

Cosa prevede

Prendendo in considerazione solo quella che è definita “legge Severino” - che tecnicamente è un testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità - il contenuto disciplina i casi di eleggibilità e candidabilità di parlamentari e amministratori locali che siano sottoposti a procedimenti penali per alcuni specifici reati.

Il testo stabilisce una serie di limiti. Per quanto riguarda i parlamentari, gli europarlamentari e i membri del governo: non possono essere candidati oppure decadono dalla carica coloro che, anche in corso di mandato, sono stati condannati in via definitiva a una pena superiore a due anni per delitti gravi di mafia e terrorismo; per delitti commessi da pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione; per reati per cui è prevista la reclusione non inferiore ai quattro anni.

Per quanto riguarda gli amministratori locali (regionali, provinciali e comunali), non possono essere candidati coloro che hanno riportato condanne definitive per delitti di mafia e terrorismo; per reati di corruzione e concussione in tutte le nuove declinazioni introdotte dalla legge Severino; coloro che hanno riportato condanna definitiva superiore ai due anni per delitti non colposi; coloro che hanno subito una misura di prevenzione con provvedimento definitivo. 

I due articoli più problematici, però, sono l’8 e l’11, che prevedono la decadenza  o la sospensione degli amministratori locali anche nel caso in cui abbiano riportato condanna non definitiva – dunque in primo o secondo grado – per tutti i casi di incandidabilità. Sospensione che cessa solo nel caso in cui poi vengano assolti nel successivo grado di giudizio.

Infine, i parlamentari e amministratori locali incandidabili dopo una sentenza di condanna definitiva rimangono sospesi per una durata temporale variabile, sulla base della sentenza di condanna ma in ogni caso non inferiore a sei anni, dalla data di passaggio in giudicato della sentenza.

I problemi 

La legge così approvata ha subito sollevato critiche politiche e negli anni anche una pioggia di ricorsi contro la decadenza o la sospensione di eletti, due dei quali sono arrivati davanti alla Corte costituzionale.

La prima è la sentenza De Magistris del 2015, in seguito al ricorso dell’allora sindaco di Napoli, Luigi De Magistris. Il sindaco era stato condannato in primo grado nel 2014 a un anno e tre mesi per abuso d’ufficio e, per evitare la sospensione da sindaco, ha impugnato la sospensione e ne ha sollevato l’incostituzionalità, contestando la retroattività della legge Severino. Secondo De Magistris, infatti, il decreto era incostituzionale perchè prevedeva l’applicazione della sospensione anche per vicende giudiziarie avviate prima dell’entrata in vigore della legge stessa. I giudici costituzionali, però, hanno rigettato il ricorso sostenendo che la sospensione prevista legge Severino non sia una sanzione penale, dunque soggetta al principio dell’irretroattività, ma una regola di diritto civile a tutela dell’ordine pubblico, dunque può essere retroattiva. In ogni caso, il giorno dopo la sentenza di rigetto la corte d’Appello di Roma ha assolto De Magistris, che quindi ha concluso normalmente il mandato.

La seconda è la sentenza De Luca del 2016, pronunciata dopo il ricorso del presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca e di un consigliere della regione Puglia. De Luca era stato condannato in primo grado per abuso d’ufficio per una questione legata all’inceneritore di Salerno e, davanti alla sospensione per effetto della Severino, aveva sollevato questione di costituzionalità. La ragione riguardava la differenza di trattamento tra eletti a livello nazionale - per cui la decadenza e l’ineleggibilità scattano solo in caso di sentenza passata in giudicato – ed eletti a livello locale, per cui è prevista la sospensione in caso di sentenza non definitiva. Anche in questo caso la Consulta ha rigettato il ricorso, ritenendo che esista una oggettiva diversità di status e di funzioni tra i due incarichi, quindi non sia possibile configurare una disparità di trattamento. Anche in questo caso, un paio di mesi prima della pronuncia De Luca era stato comunque assolto in appello e quindi aveva continuato a governare la regione.

E’ difficile quantificare i casi di sospensione o decadenza in seguito alla legge Severino. Secondo notizie di stampa, nel primo anno di entrata in vigore i casi sono stati 37 per consiglieri locali. Si ricordano però i casi più eclatanti, primo tra tutti la decadenza da senatore del leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi nel 2013, dopo la condanna nel processo Mediaset per frode fiscale, falso in bilancio e appropriazione indebita.

Il referendum

Il referendum promosso dalla Lega e dal partito radicale e dichiarato ammissibile dalla Consulta prevede l’abrogazione totale del decreto legislativo. Tuttavia, i promotori sono consapevoli che il raggiungimento del quorum sia molto complicato, vista la settorialità dei cinque quesiti sulla giustizia che verranno sottoposti agli elettori.

Per questo sia la Lega che i radicali hanno depositato due disegni di legge che ricalcano in pieno il quesito referendario, prevedendo l’abrogazione della legge Severino.

La speranza è che l’abrogazione passi in via parlamentare, facendo leva anche sulle perplessità in merito alla norma che sono presenti anche nel Partito democratico e in particolare nel cosiddetto partito dei sindaci. Gli amministratori locali del Pd, infatti, hanno accolto favorevolmente il quesito referendario e premono per riformare la legge, togliendo almeno la parte che prevede la decadenza degli amministratori anche per condanna solo in primo grado.

Per questo i parlamentari del Pd hanno depositato a fine 2021 una proposta di riforma che modifica la previsione della decadenza dopo condanne solo in primo grado, ma lascia inalterato il resto. Con l’abrogazione complessiva della norma come chiedono Lega e radicali, infatti, vengono spazzate via anche le norme che prevedono l’incandidabilità dei condannati in via definitiva per reati contro la pa e altri reati gravi.

Secondo il ddl leghista, la legge supera «il principio basilare della presunzione di innocenza, applicando la sanzione della sospensione anche ai soggetti condannati per sentenze non passate in giudicato». Secondo la Lega, è necessario «eliminare questo automatismo e restituire ai giudici la discrezionalità» di decidere «in caso di condanna, se applicare o meno l’interdizione dai pubblici uffici».

In quella che rischia di diventare l’ennesima frattura nell’attuale maggioranza di governo si è inserita anche Fratelli d’Italia, depositando un ddl autonomo. La soluzione di FdI è più vicina a quella del Pd e incide solo sull’ineleggibilità degli amministatori locali, eliminandola nel caso di condanna a pena di più di due anni; nei casi di condanna non passata in giudicato, aggiungono la previsione di condanna in primo grado ma confermata in appello.

Quale che sia la soluzione di compromesso, è probabile che – dopo dieci anni e molte polemiche – la legge Severino venga aggiornata almeno nel punto su cui tutti i partiti sono d’accordo: ammorbidire le previsioni molto rigide contro gli amministratori locali.

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