Le pene, tutte, devono tendere alla rieducazione della persona condannata, qualunque persona, qualunque reato abbia commesso. 

La Costituzione non ammette che il carcere sia esclusivamente punitivo o retributivo. Retribuzione, d’altronde, disegna immediatamente un concetto di perequazione corrispettiva che evoca la vendetta: occhio per occhio, dente per dente; tanto male hai fatto, tanto ne riceverai; a morte, morte, a orrore, orrore.  

È un ragionamento che apre le porte ad aberrazioni violente e insensate che escludono a monte la finalità di recupero quali, tanto per evocare una terribile minaccia del presente, la castrazione chimica. Niente di più lontano dall’imperativo costituzionale e convenzionale che orienta la sanzione penale alla restituzione di ogni individuo in società.  

Orienta, appunto, deve tendere, dice l'articolo 27 della Costituzione.  In quel “deve” c'è il carattere cogente della norma, scaturigine dell'obbligo per lo Stato di offrire ad ogni ristretto strumenti idonei a ritrovare la coscienza sociale e a progredire nel ripristino della vita libera. Con l’ingresso in carcere, dunque, deve attivarsi un sistema di recupero che muova da un progetto di reinserimento individuale e graduale e preservi le potenzialità soggettive da un lato e la sicurezza collettiva dall'altro.

Il programma trattamentale

A ogni persona reclusa deve corrispondere un programma trattamentale individualizzante proposto dall'area psicopedagogica all'esito dell'osservazione e sottoscritto dal magistrato di sorveglianza, giudice di prossimità del luogo dove si trova il detenuto cui è affidato il controllo – attraverso visite frequenti - che la carcerazione sia decorosa e coerente allo Stato di diritto e che sia utilmente finalizzata alla riabilitazione di chi ha commesso un reato.

La vicinanza territoriale del giudice di sorveglianza è caratteristica sostanziale del trattamento voluta dal legislatore perché a decidere del progressivo reinserimento del ristretto in società sia chi, conoscendolo di persona, nella continuità dell’osservazione, sia in grado di valutarne il percorso e di seguirne lo sviluppo.

Si legge nelle schede del Ministero della giustizia, nella sezione riservata al trattamento dei detenuti, che l’ordinamento penitenziario radica nell'osservazione scientifica della personalità il metodo attraverso il quale l'amministrazione deve favorire il reinserimento sociale dei condannati, mediante la rimozione delle cause di disadattamento sociale ritenute alla base della devianza criminale.

L'osservazione è svolta da un’equipe composta da personale dipendente dell'amministrazione: funzionari giuridico pedagogici, funzionari di servizio sociale, personale di polizia penitenziaria e, se necessario, anche dai professionisti indicati nell'art. 80 dell'ordinamento penitenziario: esperti di psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica, sotto il coordinamento e la responsabilità del direttore dell'istituto.

L’équipe di osservazione ha il compito, secondo le rispettive specifiche mansioni e competenze, di conoscere, attraverso frequenti colloqui, il recluso, il suo approccio al reato e alla vita, le capacità di relazione e di elaborazione del sé, le potenzialità di proiezione futura.

Un’indagine costruttiva che viene avviata quando la sentenza di condanna è definitiva - quando, per vocazione costituzionale, dovrebbe sparire il reo per fare posto all’uomo e alla sua possibilità di riabilitarsi - e che si traduce in una relazione finale contenente una proposta di programma di trattamento che dovrà essere approvata con decreto dal magistrato di sorveglianza. Il programma di trattamento consiste nell’insieme degli interventi rieducativi che gli operatori penitenziari propongono di attuare nei confronti del condannato o internato nel corso dell'esecuzione della pena.

Lo schema operativo illustrato rende la pena coerente alla Carta fondamentale anche nella lettura della Corte Edu che in più occasioni ha correlato la dignità della persona, definita il cuore del sistema, alla possibilità che dallo Stato deve essere offerta a ognuno di sperare nella restituzione alla vita libera.

Un progetto ben congegnato che muove dalla centralità dell’uomo e dalla comprensione della sua mutevolezza, dell’inclinazione all’errore come al recupero, di una osmotica convivenza in ciascuno di bene e male che si nutrono di contesto ambientale, studio, frequentazioni, relazioni familiari, solitudini, capacità economica, bisogni, vulnerabilità, anche patologiche e tutto ciò che una persona è nella sua essenza ed unicità.

La prima formulazione del piano di recupero di ogni ristretto dovrebbe essere redatta dopo sei mesi dall’inizio dell’esecuzione della condanna. Naturalmente, però, quel che è sulla carta non trova espressione coerente nella realtà perché a causa della endemica e mai adeguatamente affrontata carenza di risorse umane e materiali, nelle carceri gli operatori sono numericamente del tutto inadeguati a farsi carico e a prendersi cura delle storie, delle vite, delle aspirazioni delle persone detenute.

Così, assai di frequente, chi ha pene brevi da espiare arriva alla scarcerazione senza che nessuno si sia occupato delle sue attese di restituzione in società. Per gli altri, le valutazioni c.d. personologiche arrivano con ritardo incidendo gravemente sui tempi di accesso alle prime occasioni di approccio con l’esterno o alle misure alternative al carcere.

I reati ostativi

Per chi espia un reato ostativo, tra quelli dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, i tempi si allungano ulteriormente, non solo perché la legge che ha consentito – costretta dalla Consulta e dalla CEDU – la speranza di un graduale ritorno alla vita libera la ha oppressa con mille legacci, insormontabili oneri dimostrativi e appesantimenti istruttori, ma anche perché tanti tra i reclusi per quei gravi reati che fino al 2019 non aspiravano neppure al primo permesso premio non avevano mai avuto un programma trattamentale che ne ipotizzasse il reinserimento in ragione dello sbarramento, dapprima insuperabile, della mancata collaborazione utile con la giustizia.

Quella stessa legge, n. 199 del 2022, che ha fatto ingresso nel nostro ordinamento con D.L. e la giustificazione della necessità ed urgenza di impedire alla Corte Costituzionale la demolizione di un istituto già ritenuto illegittimo, ha espressamente escluso coloro che sono detenuti in regime di 41 bis dall’accesso al permesso premio e alle misure alternative al carcere. Sul piano logico tale estromissione sembrerebbe ragionevole dal momento che si presume che chi si trova assoggettato alla carcerazione derogatoria esprima ancora una capacità di comando nelle associazioni criminali di riferimento che rende opportune le limitazioni di contatto con l’esterno connesse al regime.

La logica, tuttavia, viene meno e lascia il posto a una grave violazione della Costituzione perché tutto il sistema ordinamentale è destrutturato per chi si trova in 41 bis. La norma che lo disciplina prevede che si sospenda in tutto o in parte il trattamento penitenziario – come chiarito, espressione della coerenza alla Costituzione di ogni pena - attraverso gravi e pressanti limitazioni che incidono sullo studio, sul lavoro, sulle relazioni affettive e i rapporti familiari, sulla libertà di informazione, sulla salute fisica e psichica.

Il decreto ministeriale

La sospensione della Costituzione, nel suo precetto di tensione alla rieducazione, è disposta incredibilmente con decreto ministeriale, un provvedimento amministrativo, che è oggetto di valutazione giudiziaria solo ove sia stato tempestivamente reclamato e molti mesi dopo la sua prima applicazione o la sua reiterazione: quest’ultima, a seguito di una modifica normativa del 2009, avviene per la prima volta dopo quattro anni e poi ogni due (dapprima ogni anno, fin dalla prima applicazione) con provvedimenti che si ripetono all’infinito sempre uguali a sé stessi e che arrestano la valutazione della pericolosità sociale del ristretto ai titoli di reato in espiazione cristallizzati nelle sentenze di condanna ed alla constatazione che nei territori di origine la mafia, in tutte le sue declinazioni, ancora c’è, esiste, sebbene non siano dimostrabili connessioni soggettive con il detenuto.

Sempre dal 2009, il criterio di valutazione è mutato con un capovolgimento dell’onere probatorio che ha fatto ricadere sul ristretto la prova impossibile della sua incapacità, ove allocato in una sezione detentiva di Alta Sicurezza, di riallacciare i contatti con l’ambiente delinquenziale.

Non solo. La novella del 2009 ha stabilito che il solo giudice dei reclami al 41 bis sia il tribunale di sorveglianza di Roma con la dichiarata intenzione di determinare una fissità giurisprudenziale nella materia e, dunque, fuori dalle righe, di spogliare della valutazione il giudice naturale, quello di prossimità che dovrebbe conoscere ogni recluso e disegnarne il programma trattamentale individualizzante.

Così in sede di reclamo la persona scompare del tutto e resta in vita, solo oggetto di indagine, la sua storia criminale. Il tribunale di Roma in sede istruttoria si accontenta di acquisire una nota comportamentale perché per i reclusi di quel “mondo senza” nessuno ha mai scritto una relazione di sintesi, nessuno li ha mai osservati, nessuno ne ha ipotizzato il ritorno.

Gli operatori del carcere, d’altronde, sono troppo pochi e troppo sfiniti per potersi occupare anche di chi non ha alcuna speranza di accedere un giorno a un permesso premio o a una misura alternativa, di chi, in caso di pena temporanea, dal 41 bis sarà sputato fuori, libero, senza che qualcuno abbia seguito e accompagnato, anche a tutela di esigenze di sicurezza collettiva, il suo ritorno in società o ancora di chi, in caso di condanna all’ergastolo, aspetterà la morte senza il conforto degli affetti, senza un abbraccio di madre.

La sospensione della Costituzione si protrae indisturbata, diuturnamente, a colpi di provvedimenti amministrativi, senza che il detenuto possa dimostrare, se con collaborando utilmente con la giustizia, di essere altro dal reato, di avere disegnato un’altra storia, di aver costruito una volontà nuova, di avere abbracciato pensieri diversi. Si ammette, insomma, che ci sia una categoria di detenuti irredimibili, tutti capi mafia per sempre, chiusi e dimenticati, circa 750 persone, sottratti sempiternamente alla rieducazione ed al reinserimento in aperta e rasserenante violazione della Costituzione e della Cedu.


 

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