Di fronte alla pronuncia della Consulta (la n.192/23) che consente che a Roma si celebri il processo contro i rapitori e torturatori e l’omicida di Giulio Regeni, tutti contumaci, io ho gioito: finalmente, dopo sette anni, si arriva alla possibilità di fare chiarezza su quella orrenda tragedia. Forse non si arriverà a vedere puniti quegli infami energumeni, ma almeno si giungerà alla affermazione di responsabilità e può darsi che il processo italiano arrivi anche “più in alto” nell’accertamento di chi commissionò il rapimento di Giulio.

Ero contento perché era il riconoscimento della tenacia della famiglia Regeni e di una vasta opinione pubblica che con la ferma e dignitosissima (e anche questo conta) famiglia si era schierata fin dall’inizio. Gli scherani di Al Sisi, che evidentemente hanno paura del processo, saranno comunque giudicati, costi quel che costi, “whatever it takes”.

Subito dopo il momento di gioia però, mi sono domandato: cosa ci costerà questo processo in termini di diritto e difesa delle garanzie? Dopo la prima ordinanza del Gip che pronunciava un “non possumus” se gli indagati non avevano conoscenza del processo, il nostro ordinamento aveva dimostrato un grado di civiltà giuridica maggiore dello standard che impronta quello egiziano come molti altri.

I dubbi di allora mi sono riaffiorati e la gioia del momento si è andata offuscando; meglio attendere la motivazione, che è stata pubblicata giorni fa.

La motivazione

Si tratta di motivazione di sentenza additiva e come tale è assai articolata perché intende riconoscere la validità di un principio, ma nello stesso tempo legittimare un’eccezione.

Essa si basa sulla dichiarazione di incostituzionalità dell’articolo 420 bis c.3 c.p.p. per violazione degli articoli 2, 3 e 117 c.1 Cost, quest’ultimo in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura.

In maniera molto puntale essa spiega perché, trattandosi di un caso di tortura, si possa procedere anche in contumacia degli indagati o imputati ove sia ragionevolmente accertato che i chiamati in giudizio siano consapevoli che vi è un procedimento (ed anche un processo) contro di loro, ma non siano stato raggiunti dalla vocatio in iudicium perché lo stato di appartenenza non ha consentito di raggiungerli. La motivazione è molto complessa proprio perché intende porre il limite della possibilità del processo in assenza (che una volta chiamavamo in contumacia) precisamente e unicamente attorno al caso di tortura.

L’Italia è pienamente parte di quei trattati che impongono il processo per i casi di tortura e lo consentono anche in assenza. Salvo poi, se i condannati dovessero capitare nel nostro paese e lo chiedessero, essere rimessi in termini per l’appello o addirittura per aprire un nuovo giudizio ove avessero elementi nuovi da apportare. Cioè praticamente sempre, aggiungo io, perché almeno la loro voce sarebbe una novità rilevante. Il nostro paese, sostiene la Corte, è tenuto a celebrare il processo, pena uno stallo che andrebbe a ledere non solo i diritti della vittima (o dei suoi famigliari) ma il più generale diritto diffuso all’accertamento del vero o di un vero altamente probabile, come accade in ogni processo.

Ove la mancata comparizione dell’indagato o imputato che, come in questo caso, ha piena cognizione della sussistenza di un procedimento (i torturatori furono sentiti a SIT durante le indagini egiziane) che lo può coinvolgere, ma non di un processo che lo può vedere imputato, sia da attribuirsi allo stato di appartenenza che non ha inteso rivelare nemmeno il suo luogo di reperibilità: orbene, in questo caso, il processo in assenza è consentito anzi è doveroso alla luce delle nostre norme penali interne, di quelle costituzionali e dei trattati contro la tortura, primo fra tutti il CAT (Counsel Against Torture) siglato a New York nel 1984.

Ora mi domando: è proprio utile una sentenza “debole” perché basata su un processo che vede l’assenza dell’imputato e quindi in qualche modo mutilo della parte principale ma più debole del medesimo? Certo è qualcosa, ma non è un processo vero e proprio, appare più una accurata ricostruzione, ma “inevitabilmente di parte” perché quello che avrebbe dovuto essere il deuteragonista non c’è.

Una sentenza debole

“Debole” la sentenza perché al processo e alla eventuale condanna con conseguirebbe la giusta punizione: se i torturatori assassini si sono sottratti al processo, figuriamoci alla pena.

In questi casi il processo appare più una rappresentazione che non un passaggio per fare, possibilmente, giustizia. “Debole” perché ove comparissero condannati in primo grado o in via definitiva potrebbe darsi che si dovesse ricominciare tutto da capo, perché così giustamente statuisce la Consulta. Notiamo inoltre che in un caso come questo – allo stato delle norme attuali – essendo i torturatori egiziani difesi di ufficio (poiché se lo fossero di fiducia, e non lo sono, avrebbero sanato l’assenza) il loro difensore non potrebbe interporre appello alla condanna di primo grado, che così diverrebbe definitiva.

La motivazione, però lascia perplessi non solo per questi punti, ma perché da essa traspare come sia difficile che essa non vada a costituire una traccia per altri casi di ammissione del processo in assenza.

Un divieto, ricordiamo che costituisce per noi un’affermazione di diritto raggiunta solo recentemente (con la Cartabia) poiché fino ad allora ci si era adagiati sulla contumacia niente affatto ostativa al processo. Si proceda quindi in assenza, stabilisce la Corte, per i reati di tortura perché sono rafforzati da una normativa di rango elevatissimo. Se così è, sembra a me che anche i reati di terrorismo chiedano con altrettanta forza giuridica un possibile processo in assenza dato che il numero e la cogenza dei trattati in materia sono altrettanto se non più forti e numerosi.

E che dire dei femminicidi, per i quali la Convenzione di Istambul del 2011 impone che si ricerchi la responsabilità perseguendo il possibile reo?

Ed anche la pedofilia e gli altri reati contro i fanciulli, ed anche la droga, sono tutte ipotesi in cui la normativa nazionale, ovviamente assistita dalla sua aderenza al dettato costituzionale, è rafforzata chiaramente anche da trattati e convenzioni stipulate dal nostro paese: trattasi di ipotesi tutte quante in cui potrebbe avvenire che lo stato estero non collaborasse con la giustizia italiana, o di fatto o perché non aderisce a determinate convenzioni.

Temo che le porte del processo senza che l’imputato non ne sappia nulla si siano così spalancate (di nuovo), con grave danno per le garanzie, per la parte più debole del processo stesso.

Allora, guardiamo a chi deve trattare e giudicare sui crimini in assoluto peggiori: la Corte Internazionale dell’Aja che ha giurisdizione sui crimini contro l’umanità, i genocidi e altre atrocità: essa non procede se non ha di fronte a sè, in vincoli, l’imputato.

Tutti ci rammarichiamo che Putin non possa essere giudicato e condannato in assenza ma ci inchiniamo di fronte a questa affermazione di diritto e di garanzia, che sta nello statuto della Corte dell’Aja. Anche se ci costa molto.

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