Ricordate la scena del film L’attimo fuggente, quando il Professor Keating impone agli studenti di strappare il libro che pretendeva di misurare con un grafico, in cui su un asse stava la perfezione della forma, e sull’altro, l’importanza della poesia, un sonetto Shakespeare rispetto ad un sonetto di Byron?

Ecco, mentre sono passati un bel po’ di anni da questa scena, e soprattutto dalla lezione del Professor Keating che giustamente spiegava  agli studenti che la poesia non può essere misurata come un hit parade, assegnando dei numeri – e lo stesso indubbiamente vale anche per altri aspetti della nostra cultura, inclusa l’arte ed il patrimonio culturale - , il Ministero cosa fa? Emana le Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali, che riproducono lo stesso errore di metodo.

Se anche possiamo, infatti, capire, ed entro certi limiti apprezzare, lo sforzo di una amministrazione, che dopo soprattutto le polemiche della campagna Open to Meraviglia, sta cercando di fare uno sforzo per  gestire il patrimonio culturale in un modo più trasparente, certamente non possiamo non far notare come il sistema utilizzato sia opinabile: non solo e non tanto perché lascia ampi margini di discrezionalità – in un procedimento che è già si per sé stato immaginato come farraginoso e complesso (e quindi costoso) - all’amministrazione che ha in custodia il bene (il che si traduce in un non apprezzabile indice di incertezza per gli utenti che dovranno utilizzare le immagini dei beni appartenenti al pubblico) - , ma anche e soprattutto perché, sempre valida la lezione di Professor Keating, all’atto pratico questo sistema non può che assegnare numeri quasi a caso ad utilizzi di beni culturali diversi anche tra loro quanto a destinazione.

Numeri quasi a caso

Assegnando ad es. un coefficiente dieci ad usi promozionali e pubblicitari dove si faccia una associazione tra l’immagine del bene culturale e un marchio, senza considerare il fatto che un uso promozionale o pubblicitario potrebbe anche rientrare nelle attività di un’azienda che fa parte delle industrie creative e, allora, essere parte anch’essa del patrimonio culturale in senso ampio. In più, un canone viene richiesto anche per certe pubblicazioni scientifiche: opere che per definizione - anche se, in teoria, potrebbero portare a redditi per i loro autori - , di fatto non solo sono di poca redditività e, per estensione, limitata commerciabilità, ma anche espressamente incluse tra le libere riproduzioni che non dovrebbero richiedere un canone grazie alla loro connessione a motivi di studio.

Ma soprattutto le stesse linee guida non danno coefficienti né elementi per valutare ciò che andrebbe soprattutto in prima battuta valutato: quali utilizzi siano non lucrativi o non commerciali, e quali lucrativi e commerciali.

Un nodo problematico, che sarebbe invece al più presto da sciogliere, soprattutto per attività di frontiera e al confine – che sono poi quelle ormai più frequenti - , è quello che riguarda l’aggiornamento ai nostri tempi (fatti di digitale, social, velocità e ibridazione dei linguaggi e delle industries) del labile confine tra le categorie di utilizzo commerciale e non commerciale. Mentre da noi si rischia piuttosto di trascurare il carattere e l’obiettivo dell’uso della riproduzione del bene culturale, lasciando che ogni utilizzo creativo che porti ad un minimo montante di reddito sia automaticamente classificato come un uso commerciale e, conseguentemente, degno di un canone per la licenza più alta, rispetto al rimborso spese previsto per un utilizzo non-commerciale.

In questo modo lasciando sempre irrisolte le questioni da noi sollevate alla luce della campagna Open to Meraviglia.

Il licensing

E qui ci troviamo, allora, di fronte ad altre sfide -  quelle più contemporanee - , che ci portano diretti alla tematica del licensing, forse più matura in altri contesti, che da noi, che sembriamo ancorati ancora a schemi di pensiero del passato.

In tale contesto, non si possono ad esempio più trascurare gli aspetti creativi e/o culturali anche di attività industriali che possano richiedere l’utilizzo di un’immagine di un bene culturale per comunicare appartenenza a una tradizione di artigianato, di manifattura, o anche appartenenza alla comunità italiana stessa; ovvero di un utilizzo che appartenga in qualche modo ad un processo di conoscenza del bene culturale.

Ed è proprio in tale contesto che andrebbero lette le recenti sentenze che hanno riconosciuto un diritto all’immagine di un bene culturale, in capo allo Stato legandolo alla pubblica fruizione.

Il caso è infatti noto: si tratta dellae sentenza che ha condannato il Gruppo Condé Nast per aver utilizzato in copertina della rivista GQ, un’immagine del David con effetto morphing che univa l’immagine dell’opera di Michelangelo al modello Pietro Boselli, per comunicare l’avvento di un Nuovo Rinascimento connesso all’arte, alla tecnologia, e al mondo digitale.

Molto si potrebbe dire a questo proposito (anche sul fatto che il Gruppo Condé Nast conosceva il parere contrario della direttrice della Galleria dell’Accademia, ma è comunque voluto andar avanti: ma sono in pochi coloro che hanno letto la sentenza e tutti i dettagli della vicenda), quello che qui importa sottolineare è come, a nostro avviso, tale sentenza, come riportato dalla stampa (il testo completo della sentenza non è infatti ancora disponibile), abbia interpretato la pubblica fruizione in un senso troppo stretto, lasciando fuori da questa nozione l’idea del commento, dell’appropriazione, della parodia, e anche della satira, nel diritto dei beni culturali: tutte attività, anche quando a scopo commerciale, che sono fondamentali per una conoscenza profonda di certi beni culturali come il David.

Del resto, per tornare ad Open to meraviglia, perché nel caso della copertina di GQ, con il David ed il modello, si vieta; mentre nel caso della Venere di Botticelli influencer in minigonna è tutto permesso?

Le linee guida

Di questo passo, ed a fortiori dopo le linee guida, rischiamo di equiparare ogni utilizzo di una riproduzione di un bene culturale con l’utilizzo che potrebbe anche essere effettuato dallo Stato. Detto in altre parole: rischiamo di vedere ogni utilizzo come suscettibile di licensing ovvero di controllo da parte dello Stato. Andando così contro tutte le politiche più illuminate, ed attuali, di open access. Il che, a dirla tutta, sarebbe anche un bel boomerang per l’Italia: nessuno utilizzerebbe più i nostri beni culturali, sia in operazioni culturali che commerciali, per paura di un quadro normativo contorto, incerto e anti-storico, preferendo attingere – e così veicolare - alla miriadi di immagini messe a disposizione gratuitamente da sempre più Musei ed istituzioni nel mondo.

Non tutti gli utilizzi di immagini di beni culturali sono infatti uguali: quindi è necessario analizzarli ed esaminarli in un modo imparziale per identificare il carattere e l’obiettivo dell’utilizzo all’interno di una nozione di pubblica fruizione ampia, che lasci spazio per quel tipo di dialogo culturale, molto contemporaneo, che utilizza le immagini dei beni culturali come parole, frasi, e lettere di uno stesso discorso.

È questo tipo di lettura obiettiva all’interno dello standard di fair use che sta ad esempio al cuore della recente sentenza della Corte Supreme americana Andy Warhol Foundation v. Goldsmith, e soprattutto dell’opinione del dissent. Dove ovviamente la parte più interessante sta proprio in quest’ultima opinione.

Fermandoci in superficie, infatti, si potrebbe semplicemente dire che con una sentenza di maggioranza, 7 su 2, i giudici supremi abbiano condannato la Fondazione Andy Warhol per violazione del copyright dello scatto ritraente il cantante Richard Prince della fotografa Lynn Goldsmith. La majority infatti lo concepisce come un utilizzo che porta ad una licenza (licensing).

Il dissent

Ma l’innovazione sta tutta nel dissent: quest’ultimo evidenzia infatti come la potenza dell’immagine scelta dalla rivista (ancora una volta Condé Nast, che cerca non a caso sempre di uscire dalla comnfort zone) che aveva pubblicato l’Orange series di Warhol, risiedesse tutta nel messaggio diverso che comunicava l’opera di Warhol, riguardo un cantante iconico, e facendola diventare parte di una più vasta riflessione su una cultura ossessionata dal culto della celebrity. E il dissent, allora, avrebbe visto (e vede nella sua opinione) l’utilizzo non solo come un utilizzo che porta automaticamente ad un licensing, ma come un utilizzo dettato dalle scelte trasformative di Warhol, ben evidenti anche nelle modifiche effettuate da lui alla fotografia originale. Detto altrimenti, per la majority l’opera di Warhol viene usata per un fine simile alla fotografia, mentre per il dissent si tratta di altro, un discorso culturale più vasto per il quale la fotografia di Goldsmith non avrebbe mai potuto funzionare, perché la fotografia non comunica il messaggio che è stato invece fortemente voluto da Warhol nella sua opera, attraverso le sue modifiche della foto originale.

Ed è questo l’insegnamento che l’Italia dovrebbe trarre per i suoi beni culturali, per non uscire completamente dal mercato, dall’immaginario collettivo nonostante tutti i beni che possediamo: la strada non è, infatti, quella tracciata con le (assai incerte, anti-storiche e macchinose) Linee guida e con la previsione di un tariffario minimo, per l’utilizzo dell’immagine digitale del bene culturale in pubblico dominio, ponendo una limitazione alla libertà di ciascuno di fruire del patrimonio culturale non tutelato dalla legge di diritto d’autore, senza troppe distinzioni, basta che vi sia una finalità di lucro anche se non prevalente, senza – soprattutto - spiegare il ragionamento che sta dietro la classificazione di commerciale e non-commerciale.

La strada giusta comincia piuttosto dalla consapevolezza, ben espressa nell’opinione del dissent del caso Andy Warhol Foundation v. Goldsmith, di come le immagini siano spesso usate come parti di nuove opere che commentano e appropriano per aprire un dialogo culturale. Questi sono utilizzi che dovrebbero essere visti come diversi dall’utilizzo dell’immagine dei beni culturali da parte dei Musei per promuovere la loro conoscenza e una lettura ufficiale dell’interesse culturale, e sono utilizzi creativi che comunque fanno sempre parte della pubblica fruizione e della identità collettiva dei cittadini.

In altre parole, quello che nel 2023 dovrebbe stare a cuore di giudici, funzionari, burocrati, ministri, ma anche dei cittadini tutti, non sono di certo numerelli e coefficenti – il professor Keating docet - , ma il dialogo culturale ed un nuovo punto di equilibrio tra creatività e pubblica fruizione, che siano in grado di svecchiare tutto il sistema e di stare al passo coi tempi e con le direzioni più illuminate (di Open access e Open culture) che il mondo sta sempre più consapevolmente imboccando.

Certo, per far questo, si dovrebbe svecchiare il sistema dalla base. Perché come ha ricordato di recente Massimiliano Zane, un progettista culturale e consulente le cui opinioni sono spesso fuori dal mainstream, parlare (cito testualmente le parole di Zane ai margini dell’iniziativa Open doors 2023: ancora “open”, per l’appunto…), «di “nuove professioni culturali” significa parlare di una mancanza. Ma non come solitamente si declina il tema: non si tratta di fare un elenco di chi o cosa “serve” oggi al sistema. Significa soprattutto parlare di una mancanza di domanda, o meglio di una mancanza della “giusta domanda”. Perché, alle sollecitazioni che il nuovo secolo ci sta sottoponendo (ed in maniera incrementale), il sistema culturale nazionale immutabilmente risponde ancora con le stesse prospettive del secolo scorso. Graniticamente.
Archivisti, bibliotecari, restauratori conservatori, architetti, storici dell'arte, archeologi, paleontologi e demoetnoatropologi. Ecco le professionalità ammesse e richieste dal sistema culturale nazionale oggi. Fondamentali, ma uniche detentrici d’interesse organizzativo e normativo (spesso costrette alla tuttologia). E nonostante sia chiaro che le evoluzioni nel settore siano state tali e tante (anche solo negli ultimi 5 anni) da creare quotidianamente nuove opportunità e necessità cui dover rispondere prontamente, ancora, non si registra -quasi- alcuna considerazione di ambiti che non siano settorialmente circoscritti e circoscrivibili ad uno stato dell’arte consolidato. Nessuna attenzione viene riposta a discipline sociali o economiche: dalla gestione di comunità a quella finanziaria, dalla comunicazione alla divulgazione alla progettazione al fund-raising e gestione copyright; alla promozione al marketing e ai settori digitali, fino anche a quelli della sostenibilità ambientale o quelli educativi e di accessibilità. Nessuna di queste declinazioni professionali rientrano tra gli “interessi prioritari” del sistema (pubblico), riducendone giocoforza ogni ammodernamento e quindi, implicitamente, tanto la attrattività professionale che anche la capacità e la reattività necessaria per affrontare la contemporaneità culturale che stiamo vivendo e favorire la stessa sostenibilità di un sistema non più sostenibile».
Ma questa è davvero un’altra storia.

 

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