La riforma penale è la prima vera sfida in materia di giustizia per il governo Draghi. Il disegno di legge al momento è fermo in commissione Giustizia alla Camera, il testo è quello elaborato dal precedente esecutivo e, oltre agli emendamenti dei membri della commissione, verranno proposte modifiche dalla commissione ministeriale di esperti individuati dalla ministra Marta Cartabia. Il termine per la presentazione degli emendamenti è nuovamente slittato a martedì prossimo, perché i gruppi sono ancora al lavoro per la stesura degli emendamenti. Segno che il numero sarà consistente.

All’interno del disegno di legge, il nodo politico più controverso rimane quello sulla prescrizione, ovvero la norma che prevede l’estinzione del reato a fronte dello scorrere del tempo senza che si sia giunti a sentenza definitiva. L’istituto è stato modificato dalla riforma Bonafede, approvata durante il governo Conte 1 ed entrata in vigore a gennaio 2020, che ha previsto lo stop alla prescrizione dopo il primo grado di giudizio, sia per gli assolti che per i condannati. È certo però che questa previsione verrà modificata nel ddl. Come, è ancora tutto da capire. La previsione nel testo base è quella prodotta dall’accordo tra Partito democratico, Leu e Movimento cinque stelle e separa le strade di condannati e assolti, disponendo che la prescrizione riprenda il suo corso nel caso di assoluzione dell’imputato. Pd e Leu puntano ad aggiungere anche un meccanismo di prescrizione processuale, con autonomi emendamenti. L’intenzione è quella di proporre una modifica che non sconfessi interamente il progetto di Bonafede ma che ne corregga alcuni effetti, offrendo garanzie maggiori agli assolti. Obiettivo: "smitizzare” la prescrizione riducendo la durata media dei processi. La prescrizione per fasi processuali riguarderebbe l’appello, con l’ipotesi di sconti di pena in caso di processo con durata superiore ai due anni previsti. Sul fronte opposto, invece, il centrodestra, Azione e Italia Viva puntano a cancellare del tutto la riforma Bonafede. Tutti, però, guardano a via Arenula: quando si è insediata, la ministra Cartabia ha chiesto la fiducia dei partiti caricandosi della responsabilità di trovare una sintesi per modificare la norma. E il metodo scelto è quello di diluire la politicità del tema, intervenendo prima di tutto sulla durata dei processi, con l’obiettivo di evitare che il tema della prescrizione – considerato patologia processuale – si ponga.

I dati

I dati forniti dal ministero della Giustizia, tuttavia, aiutano a mettere a fuoco come la prescrizione ha inciso fino ad oggi nei procedimenti penali. Ma soprattutto se l’istituto è davvero un punto chiave nell’ordinamento oppure se il tema è diventato un punto di scontro più politico che concreto.

Il punto di partenza è che il numero delle prescrizioni in Italia è sistematicamente calato nel corso degli anni, con un più che dimezzamento nel corso degli ultimi quindici anni. Centrale è poi individuare la fase in cui i reati si prescrivono: l’andamento nel corso degli ultimi dieci anni evidenzia come siano progressivamente aumentate le prescrizioni nel grado di appello e si siano invece progressivamente quelle nella fase delle indagini preliminari. Tuttavia, la maggior parte delle prescrizioni avvengono comunque tra la fase delle indagini preliminari e il primo grado. Dunque – prendendo in considerazione i dati del 2020 - l’incidenza della legge Bonafede per come è oggi (che sospende la prescrizione dopo la sentenza di primo grado) riguarderebbe circa un quarto delle prescrizioni che si verificano in totale.

La prescrizione è una patologia processuale. La ragione per cui si verifica è che lo Stato, titolare dell’azione penale, non è riuscito ad esercitarla nei tempi previsti e dunque, in virtù del principio della ragionevole durata del processo, la sua pretesa punitiva deve venire meno a causa di un eccessivo trascorrere del tempo. Tra le cause della prescrizione c’è la carenza di organico negli uffici giudiziari, soprattutto nel grado di appello dove il giudizio è sempre collegiale: per un reato che in primo grado è stato giudicato da un giudice solo, in appello ne vanno individuati tre. Per questo è significativo individuare e interpretare, a livello territoriale, dove avviene il maggior numero di prescrizioni in appello.

Prendendo in considerazione i dati dei 26 distretti, la mappa dell’Italia si presenta a macchia di leopardo e mostra come il numero delle prescrizioni non abbia correlazione nè con la dimensione delle corti, nè con la collocazione geografica. Nel 2020, la media nazionale di incidenza delle prescrizioni in grado d’appello sul totale dei procedimenti definitivi è stata del 26 per cento. I distretti con le maggiori difficoltà sono Roma (49 per cento), Reggio Calabria (48) e Venezia (45). Proprio questo dato è significativo perchè si tratta di tre corti diversissime: Roma è la più grande d’Italia con oltre 10 mila procedimenti definiti l’anno; Reggio Calabria invece, con poco più di 1100 procedimenti, è omologabile a Caltanissetta che ha invece solo il 3 per cento di prescrizioni; infine Venezia, che conta circa 4000 procedimenti. Sopra la media nazionale ci sono poi Napoli (39 per cento, su 9 mila procedimenti), Catania e Bologna (33, rispettivamente su 3 mila e 6500) e Catanzaro (29 per cento su 2900). Efficienti, invece, sono le corti d’appello medio-grandi come Milano e Palermo (6 per cento di prescrizioni su, rispettivamente, 5700 e 5000 procedimenti) e buoni risultati si hanno in tutte le procure siciliane, dove spicca il dato negativo di Catania, mentre le altre tre oscillano tra il 3 e il 6 per cento di prescrizione. La prescrizione come patologia di sistema dunque è un fenomeno “localizzabile”, la cui soluzione – che si traduce in una riduzione dei tempi del contenzioso – potrebbe partire proprio da un'analisi del funzionamento delle singole corti e soprattutto dalle scoperture di organico.

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