Il tema dell’equo compenso dei professionisti, oggi di nuovo in discussione in Parlamento, impone la ricerca di un difficile punto di equilibrio tra le esigenze della concorrenza e del mercato, da un lato, e quelle della qualità dei servizi professionali e del diritto ad un’esistenza libera e dignitosa di chiunque lavori, anche in forma libero professionale, dall’altro.

Le professioni intellettuali costituiscono anche la cinghia di trasmissione tra la scienza e la prassi, tra la ricerca e la società: è solo grazie ai medici che i progressi della ricerca farmaceutica si trasformano in cure per i cittadini; è solo grazie agli ingegneri che i nuovi materiali si trasformano in prodotti più sicuri; è solo grazie agli avvocati che le nuove tesi giuridiche si trasformano in rapporti sociali più equi.

Con riferimento all’avvocatura, è stata la Corte costituzionale che, già nel 1972 (con la sentenza n. 120) ha ricordato a tutti che: “Le prestazioni del procuratore legale sono dall’ordinamento considerate servizio di pubblica necessità e costituiscono, normalmente, strumento necessario per l’esercizio del diritto di difesa garantito dalla Costituzione (art. 24)”.

i liberi professionisti

Per questo, le libere professioni rappresentano un imprescindibile fattore di crescita della società civile, e quindi il gioco della concorrenza, al loro interno, non può essere improntato al massimo ribasso sugli onorari, ma deve essere temperato da regole eque e giuste sui compensi, per scongiurare il rischio che a motivare la scelta del cliente sia solo un fattore economico.  

Come d’altronde le stesse Sezioni Unite della Suprema Corte chiariscono, “il rapporto tra cliente ed avvocato non è infatti soltanto un rapporto privato di carattere libero professionale, e non può perciò essere ricondotto puramente e semplicemente ad una logica di mercato” (così, in motivazione, Cass. SS.UU. 9861/2017).

Nella stessa prospettiva, la Corte di giustizia della UE, nelle cause Arduino (C_35/99) Cipolla (C-94 e C—C- 202/04) e Hospital Consulting (C-386/07) ha sottolineato che la concorrenza, pur essendo un valore fondamentale dell’Unione, non ne è l’unico, e quando è necessario (e nei limiti in cui è necessario) può e deve essere temperato per ragioni di interesse pubblico generale.

In un mercato come quello italiano, caratterizzato da un numero estremamente elevato di professionisti, una concorrenza che si traduca nell’offerta di prestazioni al ribasso comporta il rischio di un peggioramento della qualità dei servizi forniti (così, in motivazione, con riferimento agli avvocati, la sentenza Cipolla, a quello dei dottori commercialisti la sentenza C-431/03 Servizi ausiliari dottori commercialisti associati).

Peggioramento tanto più insidioso in quanto i consumatori - ancora secondo la sentenza Cipolla - a causa dell’asimmetria informativa rispetto ai professionisti “incontrano difficoltà per valutare la qualità dei servizi loro forniti (v. in particolare la relazione sulla concorrenza nei servizi professionali contenuta nella comunicazione della Commissione 9 febbraio 2004 83 def. pag. 10)”.

la concorrenza

Occorre perciò prendere atto che la concorrenza impone di limitare l’abuso di sfruttamento dell’eccessivo numero di professionisti che si è tradotto in una corsa sfrenata al ribasso, la quale costituisce un pericolo molto grave per i cittadini.

Ed è dunque a tutela anche loro che bisogna fermarla, perché i professionisti appartenenti ad albi ed ordini presidiano la qualità di prestazioni essenziali quali la giustizia, la sanità, le opere pubbliche: in un’Italia che deve essere risollevata dal declino della pandemia non si può accettare che quella qualità continui ad essere mortificata, e che gli avvocati perdano la loro indipendenza perché oppressi da un sistema che finisce con l’impedire loro un’esistenza libera e dignitosa, quando addirittura non li riduce alla fame.

È proprio il diritto all’equo compenso, conforme all’inviolabile principio della libertà di concorrenza, che permetterebbe di arginare questo fenomeno e di salvaguardare il livello qualitativo di tali prestazioni essenziali.

Si impone quindi un intervento minimale che ponga un limite all’abuso della concorrenza, realizzato attraverso un eccesso di ribasso dei compensi professionali: lo richiede non solo l’articolo 36 della Costituzione (la cui mancata applicazione ai liberi professionisti costituisce ormai un relitto storico, da superare una volta per sempre) ma anche la necessità di garantire quell’efficienza della giurisdizione che è uno degli obiettivi del PNRR.

Gli abusi della concorrenza, poiché pratica sleale, devono essere sanzionati da una nullità di protezione e dalla conseguente inibitoria, preservando al contempo il diritto del singolo a rivendicare la differenza dei compensi eventualmente spettanti e tutelando inoltre chi di quell’abuso è vittima.

I disegni di legge attualmente in discussione alla Camera sembrano tutti muoversi in questa condivisibile ottica. Certo, sono tutti perfettibili e - se approvati - richiederanno delle “messe a punto” in corso d’opera. Ma non ha alcun senso rinviare in attesa della legge perfetta.

La forma più netta di rifiuto, si sa, è la procrastinazione: per questo, le Camere civili ne hanno sollecitato l’approvazione per affermare un principio ormai indispensabile, lasciando alla saggezza del Legislatore prima, ed alla prassi applicativa poi, di definirne i dettagli.

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