Da molti anni ormai hanno ottenuto la libertà quasi tutti i condannati per odiosi omicidi e costituzione di banda armata, consumati nei ruoli di sicari o strateghi delle Brigate Rosse o di Prima Linea. Utilizzando le soluzioni che il nostro generoso legislatore garantisce, si sono aggiunti a Senzani, alla Faranda, ai tanti altri che hanno da tempo ottenuto la libertà nonostante pesanti condanne. Alcuni partecipano ancora ad affollate conferenze, insieme ai componenti degli altri squadroni della morte che hanno lavorato per trasformare in un cimitero gigantesco le nostre città; così offrono ai cittadini il contributo del loro pensiero e della loro esperienza.

Sempre in questi giorni, ricorrono quarantacinque anni dalla morte di Guido Rossa ed Emilio Alessandrini, “giustiziati” da quegli squadroni della morte, il primo a Genova il 24 ed il secondo a Milano il 29 gennaio 1979. Uniti nel necrologio di un foglio di Padova, “autonomia”, che li descriveva così: “Un lavoratore qualificato del PCI ed un amministratore equo della giustizia capitalista... impiegati nella macchina sociale di controllo proletario... giustiziati... in due azioni di combattimento”; azioni alle quali si erano presentati disarmati ed ignari, perché quella “guerra civile”, come qualcuno ha ancora il discutibile coraggio di chiamarla, fu dichiarata e combattuta da una parte sola; e certo non da parte dei giudici, che applicarono sempre le leggi e tutelarono i diritti anche dei terroristi.

Rossa e Alessandrini

Rossa ed Alessandrini sono uniti non soltanto da quella inutile, ulteriore offesa. Nel ricordo di molti, nella memoria che li mantiene vivi, entrambi sono dei maestri. Rossa, grande alpinista accademico, aveva rinunciato ad altri successi, che pure erano alla sua portata, per vivere nel sindacato l’esperienza di un intenso impegno sociale. Ha insegnato, con il suo esempio e con toni talora accorati, che l’alpinismo non può esaurirsi nel gesto eroico di una vittoria, nella celebrazione delle proprie emozioni. Esso è scuola di vita, luogo di formazione del carattere e di una identità, e concorre con altri interessi: l’amore nella famiglia, l’impegno nel lavoro, la partecipazione e la passione nell’adempimento dei doveri di cittadino.

Alessandrini era il pubblico ministero che aveva concluso le indagini sulla strage di Piazza Fontana; con il suo esempio ha insegnato che il giudice non deve arrendersi di fronte agli ostacoli che i detentori del potere oppongono alla conoscenza della verità; che il suo compito è cercare indizi e fornire prove, accertare fatti e responsabilità per un reato, chiunque ne sia responsabile.

In una intervista rilasciata tre giorni prima della morte, aveva anche individuato con lucidità le ragioni per cui le azioni delle BR erano rivolte contro quelli che allora venivano chiamati i progressisti: «Il loro obiettivo è... arrivare allo scontro .. togliere di mezzo il cuscinetto riformista che garantisce la sopravvivenza di questo tipo di società»; volevano eliminare i protagonisti della applicazione della legge e della garanzia dei diritti, ottenere la risposta dura della stato d’assedio, che avrebbe costituito la loro legittimazione e quindi la loro vittoria. Anticipando le ragioni per le quali venne poi ucciso, Alessandrini insegnava che lo Stato, almeno agli occhi dei suoi nemici, non si identifica con la repressione, ma con l’applicazione della legge, nella quale tutti i cittadini possono riconoscersi.

La morte di entrambi fu determinante per la sconfitta del terrorismo; dopo quella di Rossa, gli squadroni della morte non trovarono più connivenze e comprensione tra gli operai; e dopo quella di Alessandrini (e definitivamente un anno dopo, con le uccisioni di Galli a Milano e Amato a Roma) i magistrati compresero la dimensione dell’impegno che li attendeva, e si fecero avanti per rimpiazzare i colleghi uccisi.

Cosa resta

Ma oggi, tanti anni dopo, viene da chiedersi cosa resta di loro, e di quella vittoria. Rimane il dubbio se sia valsa davvero la pena, che Rossa rinunciasse alle sue splendide scalate, al suo appassionato impegno umano e sindacale; che Alessandrini vedesse spegnere il proprio sorriso gioviale di abruzzese estroverso, la propria carriera di magistrato conosciuto e stimato; che entrambi venissero persi dai loro figli, dai loro amici; e tutto questo per ottenere la vittoria dell’Italia che oggi conosciamo. Che sembra aver dimenticato i loro nomi, ridotte a intitolazione di poche strade o scuole; che ha scarcerato i loro assassini; che ha premiato coloro che allora protestavano la propria neutralità (“né con le brigate Rosse né con lo Stato”), e che ancora oggi insistono con coerenza in tale atteggiamento, servendo talora una ideologia, talvolta un ricco padrone, ma mai la collettività nel suo complesso. Peggio, il loro nome è sulla bocca di molti magistrati, per quali il potere serve solo a consentire una ostentazione di de stesso, e cercano nel loro sacrificio solo una giustificazione quale suo fondamento.

Eppure, sono ancora vivi nel ricordo di molti, perché rimangono esempi di una vita sempre decorosa, mai condotta all’insegna della paura, mai strisciando attraverso di essa. A loro, che in fondo sapevano che sarebbero stati sconfitti, come agli spartani alle Termopoli, dobbiamo ancora più onore. Anche ora, che le nostre motivazioni sono state usurate dall'esperienza, e con esse sta venendo via anche il coraggio.

Qualcuno ha scritto che la storia del terrorismo è quella delle sue vittime. E con essa della Italia intera, che con loro ha perso i suoi uomini migliori, e con essi tante occasioni di speranza.

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