Rosario Livatino è stato proclamato beato pochi giorni fa.

Come è naturale e giusto che sia, l’elevazione agli onori degli altari si accompagna ad una fase di riscoperta della sua vita, del suo pensiero, del suo esempio. E difatti – non solo in questi giorni, ma negli ultimi anni – si contano numerose le uscite di documentari, biografie, ricordi.

Non mancano certo, quindi, materiale e fonti a chi voglia saperne di più sulla figura di quello che erroneamente è stato soprannominato, nel tempo, “giudice ragazzino” (ma del ragazzino non aveva proprio nulla, eccettuato il volto fresco e sorridente che ci restituiscono le foto: non, dopotutto, l’età anagrafica, non – a ben vedere – l’anzianità in magistratura, indubbiamente non l’inesperienza professionale; era anzi un giurista colto e maturo, quale appare nei suoi scritti e provvedimenti).

Il riconoscimento del martirio in odium fidei è una tappa ulteriore nel consolidamento di un percorso che già nel 2013 ha visto la beatificazione di don Pino Puglisi con le stesse motivazioni. In esso si rende manifesta la condanna radicale, strutturale della Chiesa cattolica nei confronti del fenomeno mafioso, visto come qualcosa di diverso dalla “semplice” criminalità. In questo senso, la beatificazione di Livatino non rappresenta, quindi, una “prima volta”. Da molti è stato sottolineato che si tratta del «primo magistrato beatificato» nella storia della Chiesa.

“I giuristi sono cattivi cristiani”

In realtà questa informazione è, almeno in parte, inesatta. Sarà che fin dal Medioevo – come rivela il detto popolare tedesco per cui “Juristen böse Christen”, i giuristi sono cattivi cristiani – alligna negli strati profondi della coscienza collettiva il sentore (che si farebbe fatica, d’altronde, a considerare del tutto immotivato) di una certa qual distanza fra l’arcigna, arida, spesso crudele professione delle gens de Justice e la vita pura ed eroica dei santi.

Ed in effetti i numeri non sono entusiasmanti, ma qualche canonizzato che di mestiere abbia fatto il giudice c’è. Per restare nel Mezzogiorno d’Italia, c’è San Bernardino Realino, per esempio, utroque juris doctor, che tenne cariche giurisdizionali feudali prima di farsi gesuita (siamo nella seconda metà del Cinquecento).

Sant’Ivo di Bretagna (XIII secolo), non a caso invocato patrono di giudici e avvocati. Soprattutto, si direbbe, San Tommaso Moro, per lunghi anni Lord Cancelliere d’Inghilterra, morto per mano di Enrico VIII, “The King’s good servant, and God’s first”.

Rosario Livatino non è quindi né il primo martire della lotta alla mafia, né il primo giudice santo (o beato) della Chiesa.

E’ bello pensare che questa microscopica contraddizione, questo inciampo in una narrazione ormai corrente che fa della santità un “evento”, necessariamente spettacolare, necessariamente “da primato”, non gli sarebbe affatto dispiaciuto.

Ma, soprattutto, questa nota di non-eccezionalità, di non-straordinarietà, rappresenta un indizio di ricerca, uno spunto di riflessione. L’esemplarità vera del giovane magistrato siciliano, sembra dire, non va ricercata in qualcosa di grandioso, di trionfale; il suo eroismo non è quello di un supereroe.

Ucciso senza clamore, senza particolari preavvisi, nel mezzo di una fatica quotidiana, in una provincia apparentemente torpida e remota, e nemmeno per mano dei grandi capitani del Male, ma di feroci quanto relativamente oscuri “stiddari”, facenti parte di un’organizzazione più rozza, più periferica, costola e rivale di Cosa Nostra.

Attenzione alle etichette

Livatino, santo, non è riducibile a un “santino”.

E’ proprio il “santino” di Rosario Livatino a doversi sgretolare se si vuol davvero vivificare il suo esempio di santo. Il “santino” dalla sfilza di etichette: magistrato cattolico antimafia. La classificazione è talmente comoda da risultare, alla lunga, insostenibile.

Qualcuno si è chiesto sui giornali, in questi giorni, con provocazione tremenda anche se del tutto involontaria, in cosa differisse Livatino da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Gli sono state date risposte oneste, ma quasi impaurite, e necessariamente non soddisfacenti.

L’interrogativo, se guardiamo al “santino” e non al “santo”, è legittimo, sol che si pensi che Paolo Borsellino era anch’egli, come si dice, “cattolico praticante” (Falcone, notoriamente, con delicatezza e non senza una qualche nostalgia, si definiva lontano dalla Fede). Ma la vera risposta, purtroppo per i puristi dell’argomentazione, non può che essere un’altra domanda: ridurre Livatino a una questione d’etichette? Beato perché, a parità d’impegno, “cattolico col bollino”? Evidentemente no.

E lui per primo ci aveva, d’altronde, avvertiti; la sua frase più famosa, non casualmente, ci ricorda che davanti a Dio non saremo chiamati a render conto di quanto saremo stati «credenti», ma «credibili».

Accostarsi alla storia e alla persona del giudice Livatino significa, piuttosto, mettersi in viaggio fra interrogativi diversi, ma che possono risultare incendiari. Scavare nella individualità di questo testimone luminoso vuol dire, inevitabilmente, domandarsi non solo cosa significhi mafia per un credente, ma cosa significhi essere operatori del diritto – anzi, giudici – e credenti; cosa significhi essere santi.

La traccia di risposta, che è il lascito intellettuale di Livatino (quello etico ed esistenziale è sotto gli occhi di tutti), si trova nei suoi scritti: testi di conferenze, perlopiù, e facilmente accessibili anche in rete.

La radice del suo impegno

Si scopre così che Livatino ha le idee ben chiare su quale debba essere la radice e la ragione dell’impegno (cristiano, ma non solo) contro la criminalità organizzata: non si lascia distrarre da considerazioni moralistiche, legalistiche o da riduzionismi sociologici.

Al contrario, attinge dalla riflessione della tradizione della Chiesa sulla natura del potere e sul compito delle istituzioni civili per puntare l’obiettivo, in un gioco di specchi e definizioni per differenza, sull’aspetto forse più profondo della irriducibile conflittualità fra ciò che dovrebbero essere e fare i pubblici poteri e ciò che, rispetto a questi, rappresenta il contropotere delle mafie.

In effetti, sembra suggerire Livatino (forse lettore di Capograssi, sicuramente conoscitore di San Tommaso), la criminalità organizzata si struttura non nell’assenza dello Stato, ma nella presenza distorta dello Stato.

Si potrebbe, anzi, dire che senza lo Stato non c’è la mafia: essa prospera nella misura in cui riesce a porsi come una struttura vicaria più prossima, più efficiente, che trae linfa dagli stessi meccanismi di cui si nutre il potere pubblico (gerarchia; esercizio centralizzato della violenza e della forza; “protezione” degli aderenti e della comunità in senso ampio, purché sia comunità di sudditi, di soggetti) e che sfrutta a piene mani le rappresentazioni, peraltro ambiguamente intrecciate al sentimento religioso, della sacralità del potere; quelle medesime che da sempre lo Stato non esita a presidiare, in forme sempre diverse.

Per contrastare le mafie, allora, non vale uno Stato che si limiti a fare male ciò che la societas sceleris fa meglio: terrorizzare, punire, produrre strutture gerarchico-simboliche, esercitare la supremazia sugli individui, rendendoli sì “comunità”, ma nel servaggio.

Aleggia la domanda di Sant’Agostino: remota itaque iustitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia? Se togli la giustizia, cosa sono gli Stati se non grosse bande di briganti?

Appunto, la mafia è una struttura di governo programmaticamente votata alla realizzazione, grottescamente “in purezza”, perché dis-ancorata da ogni limite estrinseco, del potere fine a sé stesso.

Essa, quasi in una tremenda storpiatura del Leviatano hobbesiano, offre a chi si assoggetta riparo, tutela, sopravvivenza; ma fa a meno di riempire il patto di soggezione di qualsiasi altro fine, scopo, valore. Nemmeno il benessere materiale sta nel compasso del vero potere mafioso, se è vero – come è vero – che più gli affiliati salgono la gerarchia, più si riducono a vivere vite semiferine, in buchi malsani, nascondigli da bestie.

Livatino, con San Tommaso, ricorda che «[…]  dovunque esistono forme associative, esiste anche una autorità di governo che ha come scopo il coordinamento delle attività dei singoli”; ma sottolinea che questo coordinamento deve essere svolto “in vista del fine: il bene […]».

La chiave è quindi quella di operare per la realizzazione di una autorità di governo come servizio al bene comune, che superi la natura demonica del potere realizzando il civis come persona, capace di instaurare «[…] relazioni con altri uomini e una mutua cooperazione che renda possibile l'acquisizione di quei beni fisici e spirituali che l'uomo isolato non sarebbe mai capace di acquisire».

In questo senso, l’impegno antimafia diventa espressione particolare, e particolarmente alta, di una vocazione universale contro il potere demonico, contro il potere antiumano: impegno feriale e positivo, proprio di ogni cittadino nel suo contesto, certo non limitato alle “terre del sacramento” e all’opera di figure titaniche o missionarie. Un impegno che riguarda tutti.

Il compito del magistrato

Livatino inquadra il suo ruolo di magistrato esattamente entro questa prospettiva: l’attività giurisdizionale – il compito di giudicare, come lo chiama lui – in quanto esercizio di autorità mette alla prova chi è chiamato a compierlo. Lo sfida ad uno sforzo quotidiano e non per questo meno nobile, meno difficile, di umanizzazione del potere.

Si scopre, infine, che per Livatino lo stare da credenti (credibili) nelle istituzioni, ed in particolare nella magistratura, significa essere capaci di uno scatto ulteriore in questo compito, che è di chiunque porti la toga, di umanizzare il potere: lo scatto, cioè, che deriva dal vivere immersi in un dialogo fra giustizia e carità - ossia amore. «Il Cristo – scrive Livatino – non ha mai detto che soprattutto bisogna essere “giusti”, anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha invece elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano […] Su questo piano, per il cristiano, qualunque rapporto si risolve ed alla fine giustizia e carità combaciano, non soltanto nelle sfere ma anche nell'impulso virtuale e perfino nelle idealità».

Ecco davvero, al di là del santino, il santo. Per chi ci crede, la vita di Rosario Livatino è stata, prima di ogni cosa, uno splendido “sì” in risposta a quella chiamata alla santità che Cristo non cessa di rivolgere a tutti («Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste»), perché il disegno di amore di Dio sia realizzato da ognuno in pienezza, nella quotidianità e nell’ordinarietà del proprio stato di vita. Per chi non crede, il giudice Livatino continua a incarnare uno stile esigente e nobile di essere magistrato, che interroga e sprona più che mai il presente.

E anche chi dovesse pensare che la sua proposta di impegno sia solo un sogno spezzato, un’utopia, un abbaglio, non potrà non sciogliere l’incontro con lui in un abbraccio, come l’Odisseo di Nikos Kazantzakis al termine del colloquio con il Pescatore di Anime (che è Cristo): «Gli spiriti sono scesi, amico, camminano in terra / ma senza la spada in mano, senza la fiamma in cuore / han buone parole sulle labbra e aprono le braccia; / con l’amore, pian piano la terra si unirà al Cielo».

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