Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella sapeva dell’esistenza della presunta loggia Ungheria. A informarlo, il 4 maggio 2020, era stato il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini in un colloquio personale. Ma non è stato il solo. Anche Piercamillo Davigo avrebbe informato dei verbali il consigliere giuridico del Colle, Stefano Erbani. Come riporta il Corriere della Sera, che ha pubblicato ampi stralci della sua testimonianza resa davanti alla procura di Brescia nell’indagine per violazione di segreto istruttorio, Ermini ha parlato «personalmente al presidente di varie questioni e lo informai anche di quanto Davigo mi aveva raccontato. Il presidente mi ascoltò senza fare commenti».

Il Quirinale, dunque, era stato messo al corrente del fatto che i magistrati di Milano, Paolo Storari e Laura Pedio, avevano raccolto dei verbali in cui l’ex legale di Eni, Piero Amara, raccontava dell’esistenza di una loggia segreta denominata “Ungheria”, i cui membri erano magistrati, politici, legali e pubblici ufficiali e la cui finalità era pilotare le nomine e incidere sui processi. E anche dei timori che Davigo aveva esposto a Ermini sull’inerzia della procura nell’iscrizione della notizia di reato.

Oltre al vicepresidente del Csm però anche Davigo, secondo fonti vicine all’ex magistrato, aveva parlato con il consigliere giuridico del Quirinale, Stefano Erbani. Il colloquio sarebbe stato successivo a quello con Ermini, ma l’argomento sarebbe stato anche la notizia che, esattamente un anno dopo, ha terremotato il Csm e gettato un’ombra sull’operato della magistratura milanese.

Come anche Ermini ha chiarito ai magistrati bresciani, Mattarella è rimasto in silenzio davanti alla notizia. Altro non avrebbe potuto fare. Come spiegato da fonti del Quirinale, la scelta è stata dettata dall’imperativo di astenersi da ogni tipo di azione davanti a inchieste in corso, rispettando il dovere di non interferire con l’operato della magistratura. Scelta che Mattarella ha confermato con il suo silenzio pubblico anche un anno dopo quando il caso è scoppiato sui giornali, lasciando però così il Consiglio in solitudine nel gestire uno scandalo di proporzioni simili se non maggiori dopo quello del caso Palamara.

Il comportamento di Ermini

Ermini riassume ai magistrati di Brescia anche come era venuto a conoscenza dei verbali della loggia Ungheria: il fatto che la fonte fosse l’ex togato del Csm, Piercamillo Davigo, è cosa nota. Non altrettanto le modalità: «Davigo mi invitò in cortile, lasciando i telefoni in stanza. Data la complessità del quadro mi suggerì di informare il presidente della Repubblica, perché riteneva giusto che sapesse. In serata, avendo già in mente di andare dal presidente che non vedevo ormai da un paio di mesi, mi recai al Quirinale, saltando il consigliere giuridico».

Ermini aggiunge anche un altro dettaglio significativo: pochi giorni dopo la visita al Quirinale, Davigo si è recato da lui con una teca arancione. «Mi disse: “Ti ho portato le carte perché vorrei che leggessi le dichiarazioni di Amara”. Ero molto in difficoltà, averle depositate sulla mia scrivania mi poneva il problema di cosa farne, posto che non intendevo veicolare al Comitato di presidenza senza una qualunque base di ricevibilità e utilizzabilità».

La tesi sempre sostenuta dai vertici del Csm, infatti, è che la circolazione del verbali di Milano in forma di stampato Word e le informazioni che personalmente Davigo aveva dato in forma orale a molti membri del Consiglio, non potevano essere sufficienti per aprire formalmente un fascicolo. Per poter procedere, infatti, sarebbe servito un esposto. Per questo, «appena uscito Davigo, cestinai la cartellina. Quei verbali non li ho mai voluti leggere e li buttai senza aver preso conoscenza del loro contenuto».

Ermini, dunque, si sarebbe trovato in grande imbarazzo davanti alle informazioni confidenziali che gli stava dando Davigo, con un riferimento anche al coinvolgimento nella presunta loggia del consigliere Sebastiano Ardita, ex amico e compagno di corrente di Davigo. Il vicepresidente del Csm allora – senza poter determinare l’attendibilità delle parole dell’ex pm – ha deciso di riferire la conversazione a Mattarella, nelle vesti non solo di capo dello stato ma anche di presidente del Csm. Una sorta di passaggio al livello superiore di una informazione difficile da gestire, oltre che non confermata da atti formali.

A quel punto l’esistenza dei verbali era ormai nota non solo al Quirinale, ma anche all’intero comitato di presidenza del Csm, ad alcuni consiglieri laici e togati e anche al presidente dell’Antimafia Nicola Morra. Il cortocircuito, però, è stato generato da un fatto: nessuno degli informati ha agito davanti alla notizia né, almeno formalmente, avrebbe potuto farlo. Il Colle per non interferire con un altro potere dello stato in un’inchiesta in corso, i vertici del Csm perché mancava un esposto scritto.

Alla fine qualcuno però si è mosso. Seppur solo per una richiesta di chiarimenti, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi – anche lui informato da Davigo in quanto membro del comitato di presidenza e titolare dell’azione disciplinare per i magistrati – ha telefonato al procuratore capo di Milano Francesco Greco. «Davigo, senza alcun materiale cartaceo, mi disse che a suo avviso era necessario che io, quale pg della Cassazione, avessi un chiarimento con il procuratore di Milano, essendosi lì determinato uno stallo dovuto al fatto che, secondo lui, Greco non assumeva alcuna iniziativa che desse impulso alle indagini», è la versione di Salvi. Il pg di Cassazione aggiunge anche che «chiamai Greco per avere chiarimenti. Mi si chiede se la mia prima telefonata a Greco si collochi tra l’incontro con Davigo e il 12 maggio (data di iscrizione della notizia di reato, ndr)» e «la cosa è verosimile, ma non posso darne certezza non avendo più quel cellulare».

Proprio da questa ricostruzione, tuttavia, emerge un dato incongruente rispetto alla posizione di Greco. Il procuratore di Milano, infatti, ha sempre negato di aver ricevuto sollecitazioni per accelerare le indagini da parte di Salvi. «Mai mi ha parlato di Davigo e Storari, e tanto meno di contrasti o indagini», ha detto Greco nell’interrogatorio davanti ai magistrati di Brescia. Secondo lui, infatti, l’iscrizione della notizia è avvenuta per «maturazione delle scelte» e dunque in modo del tutto autonomo da qualsiasi condizionamento esterno.

Quello che non torna

La tesi che Davigo ripete sin dall’inizio della vicenda è una: le sue iniziative informali sarebbero state dettate dalla sola volontà di rimettere sui binari corretti un’indagine che altrimenti rischiava di saltare. I verbali, infatti, erano datati dicembre 2019 e in aprile l’iscrizione della notizia di reato (di calunnia a carico dello stesso Amara oppure della loggia segreta, a seconda dell’attendibilità attribuita all’ex legale di Eni) ancora non era avvenuta. Per questo Storari si sarebbe allarmato e si sarebbe rivolto a Davigo. La mancata iscrizione dolosa di una notizia di reato, infatti, fa sì che – una volta scoperta – il decorso dei termini scatti nel momento in cui l’iscrizione sarebbe dovuta avvenire. Nel caso dei verbali, quando questi erano stati resi. Di qui l’iniziativa di Davigo di sollecitare l’intervento di Salvi e del Csm a inizio maggio 2020, a un mese dalla scadenza del termine per l’indagine. In quest’ottica, quindi, l’iniziativa di Davigo sarebbe andata a buon fine: l’intervento di Salvi e l’iscrizione della notizia di reato hanno fatto raggiungere l’obiettivo prefissato di salvare l’indagine sulla presunta loggia. Tesi non condivisa dalla procura di Milano, che invece ha sempre detto di essersi mossa nel rispetto delle procedure e senza interferenze esterne se non quelle negative, determinate dal passamano di verbali ad opera di Davigo e Storari.

Restano tuttavia una serie di interrogativi: per quale ragione nessuno al Csm ha redatto almeno una relazione di servizio sulle confidenze di Davigo? Perché Davigo non è stato sentito nel procedimento disciplinare a carico di Storari aperto dal pg di Cassazione Salvi? Ma soprattutto non è ancora chiara la dinamica per la quale i verbali sono stati infine resi pubblici, facendo emergere che tutti ne erano a conoscenza ma anche inquinando definitivamente l’indagine.

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