Nel dibattito sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura il cosiddetto “caso Palamara” rischia di nascondere una realtà ben più complessa.
Il Csm soffre infatti di una crisi di rappresentanza riconducibile per molti aspetti alla crisi della rappresentanza politica che investe oggi le istituzioni democratiche occidentali.

E non appaia improprio questo parallelismo, perché il Csm è un organo elettivo, rappresentativo degli orientamenti dei magistrati e più in generale della cultura giuridica del Paese, che è chiamato non solo a garantire autonomia e indipendenza della magistratura, ma anche a esprimere un proprio programma in qualche misura “politico”, nel definire le linee guida per un’efficiente e corretta organizzazione degli uffici giudiziari e nel formulare proposte e pareri su tutti i temi riguardanti l’amministrazione della giustizia.

Crisi di rappresentanza

Per rendere chiara la situazione che descrivo come crisi della rappresentanza, è sufficiente considerare che oggi si discute seriamente della possibilità di sostituire il voto con il sorteggio. C’è chi preferisce il caso al progetto; e non solo per la selezione dei componenti del Csm ma anche per la composizione del parlamento.
Pur di superare lo status quo, si accetta qualsiasi cambiamento alla cieca, senza distinguere tra ciò che del passato è effettivamente indifendibile da ciò che è irrinunciabile. In questo contesto la scelta della rappresentanza non è determinata dalle immagini di un futuro auspicabile ma da ricostruzioni cospirative del passato.

E perciò nella ricostruzione del passato si esclude ogni margine di quella stessa casualità cui ci si affida pressoché integralmente per il futuro.
Questa logica rende irrilevante qualsiasi differenza progettuale tra gruppi o partiti, come la stessa distinzione tra destra e sinistra, legittimando quale unico obiettivo la sostituzione come che sia dei rappresentanti attuali.
In una prospettiva opposta, ma paradossalmente con analoghi risultati, si sostiene che il rappresentante eletto deve rispondere agli apparati del gruppo o del partito che lo hanno selezionato, non alla sola sua coscienza e al suo modo di interpretare il mandato affidatogli.
E’ questa la prospettiva del cosiddetto mandato imperativo, in cui il rappresentante è un mero esecutore, privo di iniziativa e di autonomia.
Se il sorteggio tende a una rappresentanza solo statistico sociologica, dunque di mera appartenenza all’ambito dei rappresentati, il mandato imperativo, che valorizza l’appartenenza di gruppo o di partito, tende non di meno all’analogo obiettivo di minimizzare la distinzione tra rappresentanti e rappresentati.

La rappresentanza fiduciaria

L’insoddisfazione si traduce in diffidenza; e si tende in ogni caso a colmare il distacco tra ceto politico e società. Ma in definitiva sullo sfondo c’è la prospettiva di una rimozione della rappresentanza fiduciaria in favore di una democrazia tendenzialmente diretta, che oggi si auspica affidata alla telematica.
Si dimentica così che i parlamenti, come del resto i tribunali, sono organizzati per permettere un confronto argomentativo aperto ma sottratto a condizionamenti e manipolazioni esterne.

Infatti il fondamento della democrazia non è il principio di maggioranza, che è solo una tecnica di decisione, bensì la fiducia nel confronto degli argomenti quale metodo per far prevalere l'argomento migliore. E non si dà confronto autenticamente democratico se la decisione viene presa da chi al confronto argomentativo non abbia preso parte direttamente.

La democrazia rappresentativa esige dunque che ciascun rappresentante possa determinarsi in piena autonomia, sulla base del confronto degli argomenti, se non si vuole privare di senso le assemblee elettive, al cui superamento tende infatti la prospettiva della democrazia diretta.

Ma le garanzie di autenticità del confronto argomentativo non sono trasferibili fuori delle aule parlamentari, se non al costo di gravi limitazioni delle libertà fondamentali. Anche con la democrazia telematica, come con il sorteggio e con il mandato imperativo, il criterio di decisione rischia dunque di ridursi all’appartenenza, etnica o di partito o corporativa.

Le valutazioni di professionalità

In realtà l'atteso superamento dell'anzianità quale criterio di selezione professionale ha mutato il rapporto tra i magistrati e il Consiglio superiore della magistratura. S'è rotto il tradizionale equilibrio tra la garanzia delle aspettative individuali e la pratica clientelare del sistema delle correnti.
Per di più l'accresciuta discrezionalità dell'organo di autogoverno nella valutazione della professionalità, che viene spesso vissuta come arbitrio dai magistrati, contrasta con la perdurante impostazione rigidamente garantistica della gran parte della normativa secondaria consiliare, intesa alla tutela del singolo magistrato piuttosto che alla promozione dell’efficienza organizzativa del sistema giudiziario.

Paradossalmente la deriva corporativa e il ruolo determinante del criterio dell’appartenenza nelle decisioni del Consiglio finiscono per attribuire preminente rilevanza a quegli stessi interessi individuali che poi trovano tutela dinanzi al giudice amministrativo, a detrimento della tutela dell’istituzione giudiziaria.

La direzione di un ufficio dovrebbe essere considerata un servizio, cui i magistrati vanno chiamati solo se e quando sia utile per l'istituzione, che del resto non riconosce gerarchie. La magistratura associata ha ottenuto l’abolizione della “carriera”, perché i magistrati non fossero condizionati da «speranze o timori» («sine spe ac metu»).

I magistrati vantano invece un sorta di "diritto" a ricoprire incarichi direttivi o semidirettivi; e non si sentono rappresentati dal Consiglio, le cui decisioni vengono spesso vissute come determinate da ragioni di mera appartenenza correntizia e comunque non ostensibili. Si determina così una sensazione di estraneità rispetto a una “casta”, che segue un proprio peculiare percorso professionale.

I fuori ruolo

Tappe fondamentali di queste carriere parallele sono frequentemente i collocamenti “fuori ruolo”, vale a dire la destinazione all’esercizio di funzioni non giudiziarie presso pubbliche amministrazioni, in particolare il Ministero della Giustizia ma non solo, o altre istituzioni di rilievo costituzionale, come lo stesso Consiglio superiore della magistratura, le commissioni parlamentari o la Corte costituzionale.

Vi sono poi anche gli esoneri parziali o totali dal lavoro giudiziario per circa quattrocentocinquanta magistrati, che vengono decisi per lo più dai gruppi consiliari. Un inventario completo di questi esoneri è stato tentato; ma pare che non sia possibile, perché le ragioni che li giustificano sono le più varie: dalla partecipazione ai consigli giudiziari, il ruolo istituzionale che maggiormente giustifica l’esonero, agli incarichi di referenti per l’informatica o di esperti internazionali di lungo periodo o di formatori decentrati.

Per molti di coloro che hanno scelto di fare il magistrato e si proclamano orgogliosi di esserlo, sembra quasi che l’obbiettivo principale sia quello di svolgere poi un altro lavoro, con la prospettiva di una carriera alternativa e comunque più rapida.

In particolare dal fuori ruolo consiliare, come magistrato addetto alla Segreteria o all’Ufficio studi, si passa alla Cassazione, con preferenza per la Procura generale, o si assume un incarico associativo o di corrente, per poi tornare in Consiglio come componenti.
Tutto ciò avviene benché tutti i gruppi si dichiarino contrari alle “carriere parallele”.

In particolare il ruolo di esponente dell’associazione o di una corrente è la premessa migliore, anche se non esclusiva evidentemente, per ottenere la candidatura al Csm. E questo incide in misura significativa sulle caratteristiche personali e professionali di molti componenti del Consiglio.

Le ragioni dell’approdo all’organo elettivo sono troppo spesso i meriti associativi piuttosto che quelli professionali. E per lo più sono meriti inequivocabilmente sindacalcorporativi.

I titoli “privilegiati”

L’esperienza al Csm costituisce poi titolo privilegiato per incarichi direttivi. La competitività tra magistrati si è così trasferita sul piano dell’impegno sindacale: è in questo contesto che si coltivano le speranze, se non i timori. Mentre si evita accuratamente che si diano occasioni per distinzioni e comparazioni di merito sul piano del lavoro giudiziario, con la conseguenza di privare il CSM di dati oggettivi da valutare quando si tratta di conferire incarichi ambiti, lasciando che prevalgano le possibili referenze sindacali e comunque le appartenenze.
Dopo modifiche ripetute al suo testo originario, la legge del 1958 prevede attualmente per l’elezione della componente togata del CSM un sistema a candidature individuali in tre distinti collegi nazionali: giudici di legittimità, giudici di merito e pubblici ministeri.

Con questo sistema sono possibili anche candidature non proposte dalle tradizionali correnti dell’Anm; ma è inevitabile che le candidature più numerose e più forti, se non esclusive, siano quelle proposte dai gruppi organizzati, anche per la dimensione nazionale dei tre collegi, che ne favorisce l’azione di sostegno, almeno quando non si tratti di candidati che godano di una propria personale notorietà di livello appunto nazionale.

L’elettore può esprimere un solo voto per ciascuno dei collegi nazionali, indipendentemente da qualsiasi eventuale collegamento di gruppo dei diversi candidati, non essendo ammesse liste di gruppo per le candidature.

Risultano eletti i candidati che riportano il maggior numero di voti in ciascuno dei collegi nazionali: i primi due nel collegio dei giudici di legittimità; i primi dieci nel collegio dei giudici di merito; i primi quattro nel collegio dei pubblici ministeri.

L’impossibilità di presentare liste comporta peraltro che non rileva quanti voti ottengano complessivamente i candidati proposti da ciascuna corrente, ma rileva solo il numero di voti riportati da ciascun candidato. Sicché può accadere, ed è effettivamente accaduto, che, pur riportando un maggior numero complessivo di voti, un gruppo ottenga un minor numero di seggi, se i voti non sono equamente distribuiti tra i suoi candidati, perché uno di essi ne ottiene più di quanti ne sarebbero necessari per la sua elezione.
Questo rischio di asimmetria tra consensi e seggi costringe i gruppi ad avventurarsi in pratiche azzardate.
Debbono innanzitutto evitare di presentare un numero di candidati superiore al numero dei seggi che prevedono di poter ottenere, onde evitare che a troppi candidati corrispondano pochi seggi, a causa di una dispersione dei voti. Ne consegue una preordinata vischiosità dei risultati elettorali, che tendono a ripetere quelli delle elezioni precedenti.
Debbono poi esercitarsi, i gruppi, in uno sforzo di controllo del voto, quasi sempre velleitario, suddividendo l’elettorato su base territoriale e impartendo direttive intese a ottenere che gli elettori di ciascun territorio votino solo per un determinato candidato. Ma è evidente che gli elettori preferiscono per lo più scegliere da sé, soprattutto se vi sono candidati noti a livello nazionale o se all’interno di una stessa corrente si possono distinguere diverse cordate personali o territoriali, come è del resto già accaduto.

Il sistema delle candidature

Insomma con l’attuale sistema le candidature sono sempre molto poche: sono appena superiori al numero dei sedici seggi disponibili.
Il vigente sistema elettorale è dunque inviso alle correnti dell’Anm, che spingono per ottenerne un cambiamento. Ma paradossalmente questa spinta al cambiamento sembra trovare ascolto anche in coloro che dichiarano di voler ridimensionare ulteriormente il ruolo delle correnti.
Una parte della magistratura, sostenuta anche da qualche opinionista, si è pronunciata per il sorteggio dei candidati da proporre poi agli elettori.

Nelle intenzioni di chi lo propone, il sorteggio è un rimedio, o almeno una reazione, alla burocratizzazione degli apparati correntizi, che determina un difetto di effettiva rappresentatività degli organi elettivi.

Ma lo stesso sorteggio comporta una riduzione, almeno parziale, della rappresentatività. E non è chiaro perché una riduzione dovrebbe essere preferibile rispetto all’altra. Né è proponibile la comparazione con scelte nelle quali il sorteggio è destinato a garantire l’imparzialità, non la rappresentatività, della selezione.
Se lo scopo è quello di garantire la rappresentatività culturale e programmatica del Csm, com’è ovvio quando si parla di elezioni, c’è un solo strumento: la partecipazione.

Si parla allora di reintrodurre il voto di lista, sebbene con la possibilità per l’elettore di votare anche candidati appartenenti a una lista diversa da quella prescelta (il cosiddetto panachage). Ma questo sistema comporterebbe un rafforzamento, non un ridimensionamento, delle correnti rispetto al sistema elettorale attuale.
In realtà il difetto principale del sistema vigente è quello di limitare e di conseguenza rendere non contendibili le candidature.

Sarebbe preferibile dunque un sistema elettorale a doppio turno, che imponga di eleggere al primo turno un numero predeterminato di candidati per ciascuno dei distretti di corte d’appello. Al secondo turno sarebbero così in competizione molti più candidati, con una selezione più aperta e non ingessata dagli apparati di corrente.
Credo che risulterebbe così possibile rompere il monopolio delle correnti nella selezione dei candidati e impedire che i meriti sindacali prevalgano sui meriti professionali.

 

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