Da quindici anni sono volontaria nel carcere di san Vittore a Milano, dove mi dedico a chiunque mi chieda qualcosa, senza differenze di età, di provenienza, di cultura e religione. Il mio incontro è con la persona, non con l’autore di questo o quel reato. Parto dalla consapevolezza che ogni persona sia sempre di più di qualsiasi fatto commesso. All'interno di questa relazione di fiducia si può parlare in modo costruttivo, da compagna di viaggio, sperimento i piccoli salti di qualità e i cambiamenti di vita profondi, perchè raggiunti con tanta fatica e pochi aiuti, ma ad un certo punto riusciti.

Nel corso di questi anni mi sono ritrovata ad avvicinare in carcere soprattutto i giovani dai 18 ai 25-30 anni e persone con disagio psichico. Entrambi sono aumentati in maniera esponenziale da qualche anno e ciò a cui assisto quotidianamente è una enorme fragilità, che sempre più spesso sfocia nel farsi del male, fino a togliersi la vita. Per questo non mi sorprende il drammatico dato che ho letto sui giornali di 17 suicidi in carcere da inizio anno, quasi uno ogni due giorni.

Del resto, dentro al carcere entra sempre di più il disagio sociale, trasformandolo in modo drammatico in un luogo di raccolta di marginalità ed emarginazione. Questo mi porta a chiedermi se, forse, non si stia in realtà criminalizzando la povertà e i malati psichici o psichiatrici, prima ancora dei reati commessi.

Quello a cui assisto ogni giorno sono sezioni e celle diventate invivibili, dove aumentano le reazioni di rabbia che portano ad aggressioni tra gli stessi reclusi e verso gli agenti di polizia penitenziaria. Il sovraffollamento e il regime chiuso agevolano esasperazione, la depressione aumenta in celle piccolissime dove i detenuti devo fare a turno per alzarsi o per mangiare e dove non possono neanche sgranchirsi le gambe. Dove manca qualsiasi senso di dignità.

Le risposte che si sentono più spesso sono ipotesi di un aumento degli spazi e di posti in carcere, di ampliamento delle carceri. Anche questo, alle mie orecchie, è doloroso e mi porta a chiedermi: ma se una di quelle persone detenute con problemi psichici fosse mio figlio, mia madre, mio padre, non vorrei che fosse prima di tutto curato? Invece, non ho sentito dire con la stessa forza che si sta pensando ad aumentare o a creare nuove strutture di cura. Servirebbe un cambiamento di mentalità con cui si pensa prima di tutto a questi detenuti, facendo prevalere la cura rispetto alla punizione fine a se stessa.

Il disagio psichico

In carcere sono davvero tante e in continuo aumento le persone con disagio psichico e la loro prima esigenza è quella di un sostegno. Nelle strutture, però, gli psicologi e gli psichiatri sono sempre pochi e si devono “fare in mille” perchè ogni giorno ci sono emergenze da contenere, equilibri da salvare nelle convivenze di cella. Eppure, forse per un eccesso di umanità e zelo del proprio lavoro, si ritrovano a vivere situazioni avverse e spiacevolissime, come nel caso di due psicologhe di San Vittore, coinvolte in una indagine giudiziaria in seguito alle attenzioni prestate alla situazione di una detenuta. Vedo di persona che tanti operatori sanitari ed educativi, ma anche gli stessi agenti della penitenziaria, hanno una grande motivazione umana oltre che professionale, ma il carico da portare è eccessivo rispetto agli orari di lavoro e alla carenza di personale.

Entrando in carcere ogni giorno, è lacerante fermarmi davanti alle celle e vedere gli occhi smarriti e depressi di tanti detenuti e raccoglierne il dramma, sentendomi ripetere: «Non ce la faccio più a stare 22 ore in cella tutti i giorni». Chi è più malato rischia di arrivare ad atti estremi, chi è più forte o sano rischia invece di incrementare la rabbia e riversarla all’esterno. Porto nel cuore una grande sofferenza per ogni persona detenuta in quelle condizioni, ma anche per chi lavora in carcere. Dove arriveremo di questo passo? Senza umanità non andiamo da nessuna parte. Possiamo però alzare lo sguardo per ripartire tutti dal bene che ci sta a cuore: la dignità di ogni persona.

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