Il tema della priorità dei vaccini da somministrare in ambiente penitenziario è un argomento rilevante, non solo per definire le politiche sociali nel nostro paese, ma anche come test di coerenza delle scelte complessive in materia di Covid e carcere.

Per bocca del sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis abbiamo appreso che l’orientamento sarebbe che i detenuti siano vaccinati con gli stessi criteri dei cittadini liberi.

Questa è una scelta a mio avviso sbagliata, non in linea con il principio del welfare rafforzato che tutela la salute in ambiente penitenziario – come hanno spiegato bene due giorni fa su Repubblica Mauro Palma e Liliana Segre – ma soprattutto pericolosa in termini di politica criminale.

Non mi sembra questo il terreno sul quale rivendicare la parità formale di trattamento tra detenuti e liberi. In primo luogo perché le due categorie non sono sullo stesso piano e, in base al secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, meriterebbero trattamenti diversi. Ma soprattutto perché, su questa delicata materia, vi è la necessità di mantenere la coerenza delle scelte: ossia di rendere chiaro, una volta per tutte, se si ritiene vera o meno la circostanza che il virus si propaghi più facilmente in carcere e adeguarsi poi a questa valutazione.

La ragione per decidere di negare la priorità del vaccino a chi sta in carcere potrebbe fondarsi solo su una valutazione certa del governo che ritenga non sussistente un maggiore pericolo di contagio e che l’infezione sia gestibile in ambiente penitenziario allo stesso modo di come si affronta all’esterno. Ma se così fosse non si comprende perché continuino a favorirsi le detenzioni domiciliari con braccialetto, anche per detenuti pericolosi, proprio sul presupposto del pericolo di Covid, consentite sulla base del decreto Cura Italia poi convertito in legge.

Il pericolo di infezione

Se solo vi fosse il dubbio che il pericolo di infezione sia rafforzato tra le sbarre, visto che da più parti si continuano a invocare ulteriori provvedimenti eccezionali e indulti, una scelta molto più razionale sarebbe quella di vaccinare tutti i reclusi presenti e tutti gli operatori penitenziari: e poi di vaccinare in ingresso i nuovi giunti e tenerli separati dalla restante popolazione detenuta fino a che il vaccino non abbia efficacia.

Questa misura, che si giustifica ampiamente con le considerazioni esposte da Segre e Palma, avrebbe anche l’effetto di evitare quella temuta esplosione incontrollata dell’epidemia che sinora si era prevenuta favorendo il ricorso alle detenzioni domiciliari.

Inoltre non va dimenticato che in carcere operano agenti, direttori, funzionari e altri operatori, che sono particolarmente esposti al virus e il cui bilancio di morti e contagiati risulta essere pari se non superiore a quello dei reclusi. Una delle grandi omissioni del dibattito recente sulle carceri riguarda proprio il sacrificio di questi operatori e la loro funzione strategica rispetto al buon funzionamento della macchina penitenziaria.

L’espressione più gentile che si usa nei loro confronti è che “sono vittime anch’essi di un sistema senza speranze che è il carcere”. Questo è un modo sbagliato e ingeneroso di porre la questione. Nella sua storia l’amministrazione penitenziaria ha dato grande prova di coraggio e di sacrificio, e ha rappresentato non solo un baluardo per la sicurezza dello stato, ma anche un presidio per la rieducazione e il recupero dei condannati.

Oggi paga le conseguenze di anni di omissioni e inefficienze nella gestione politico-amministrativa delle carceri, mentre sarebbe facile ripartire e costruire un carcere della speranza puntando sul lavoro di agenti, direttori e funzionari. A cominciare dalla gestione pianificata ed efficace di questa emergenza, che non può prescindere dal dare priorità al vaccino per chi vive e opera in quell’ambiente.

Se poi il problema è dato da ciò che potrebbe pensare l’opinione pubblica, credo che nessun cittadino preferisca un indulto o una liberazione speciale a una dose di vaccino somministrata con priorità. Sarebbe sufficiente saperlo spiegare oggi con parole chiare, piuttosto che doversi giustificare domani del fatto di essere stati costretti a scarcerare altri diecimila condannati perché la situazione è sfuggita di mano.

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