Il caso Palamara ha terremotato la magistratura e il Csm – anche quello attuale da poco insediato – sta ancora facendo i conti con le sue conseguenze. Come in ogni scandalo, però, le facce sono due: pubblicamente c’è stata la reazione che ha portato all’espulsione dell’ex capocorrente di Unicost, sullo sfondo è rimasto che quello di Palamara era un sistema che si teneva insieme attraverso i rapporti di forza tra gruppi associativi. 

La posizione di Nordio

In questo contesto è maturata la nomina di Carlo Nordio a ministro: ex magistrato sì, ma lontano dai gruppi associativi, con una volontà iconoclasta e nessuna sudditanza nei confronti del sistema correntizio.

Certo, per il ministro quello di Palamara è stato «uno scandalo» che ha fatto emergere «un verminaio a cui non si è posto rimedio». Tuttavia, proprio in virtù di un passato non compromesso, la posizione del guardasigilli è sempre stata quella di considerare il metodo per la spartizione dei posti direttivi solo parte di un problema più ampio e anzi lo strumento per mostrare le storture del sistema mediatico prima ancora che di quello giudiziario. 

Non a caso, il ministro ha utilizzato il caso Palamara come argomento a sostegno della necessità di modificare le regole sulla pubblicazione illegittima delle intercettazioni. In audizione alla commissione Giustizia del Senato, infatti, ha detto che «La porcheria sulle intercettazioni è continuata anche dopo la legge Orlando, basta vedere l'inchiesta sul sistema Palamara, cosa è uscito su cose che non avevano a che fare sulle indagini e, aggiungo, cosa non è uscito». Secondo il ministro, infatti, «Sono state selezionate, pilotate, diffuse secondo gli interessi di chi le diffondeva e non sono state ancora tutte rese pubbliche o ascoltate dai difensori o individuate nelle forma di perizia».

Tradotto: il caso Palamara non sarebbe esploso se, nel 2019, i quotidiani non avessero pubblicato intercettazioni coperte dal segreto istruttorio e non penalmente rilevanti. Palamara, infatti, era indagato per corruzione, ma il fulcro del dibattito diventarono le sue conversazioni per pilotare le nomine ai vertici degli uffici giudiziari.

Quanto al contesto in cui il metodo spartitorio è proliferato, Nordio ha sempre sostenuto la questione del contesto più che la logica della mela marcia da togliere dal mucchio. «Il fondo sarà toccato quando Palamara farà sfilare al suo processo le decine di colleghi che hanno contrattato con lui le cariche, e che il Csm non ha voluto sentire mettendo il coperchio sulla pentola che bolliva. Potrebbe essere un bagno di sangue», ha detto in gennaio in una lunga intervista a Libero, stigmatizzando la cosiddetta “circolare Salvi”.

Ovvero il fatto che i procedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati che chattavano con Palamara per ottenere posti dirigenziali siano stati aperti sulla base di un criterio: nessun procedimento per i magistrati che si autopromuovevano o promuovevano altri ma senza danneggiare terzi colleghi, disciplinare solo per chi attivamente tentava di sabotare le nomine altrui.

Il caso Sinisi

Alla luce di questa posizione peculiare sul caso Palamara vanno lette le ultime nomine del ministro, che ha recuperato in posizioni apicali a via Arenula due persone i cui nomi sono emersi in modo pesante nella pubblicazione delle chat dell’ex capocorrente. 

Il primo caso ha riguardato Giuseppina Rubinetti, avvocata diventata caposegreteria del ministro, finita sui giornali perchè dalle chat risulta che, nell’aprile 2019, organizzò una cena con Palamara per sostenere il magistrato Luigi Birritteri, che aspirava a diventare segretario generale del Csm.

L’altra è la nomina Rosa Patrizia Sinisi, magistrata vicina a Unicost e attuale presidente della Corte d’appello di Potenza, chiamata da Nordio a ricoprire l’incarico di vice capo del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria.

L’autorizzazione al collocamento fuori ruolo è passata al plenum grazie ai voti degli astenuti: per il sì hanno votato in 14, con 9 contrari e 7 bianche. Un risultato assolutamente eccezionale, visto che al Csm vice il principio dei buoni rapporti istituzionali quando un ministero richiede un magistrato.

La pratica ha provocato un dibattito di quasi due ore sull’opportunità di concedere il fuori ruolo a Sinisi, nei cui confronti pende da ben due anni la pratica relativa alla sua conferma nel ruolo di presidente di Corte d’Appello. Le chat pubblicate, infatti, mostrano come Sinisi si rivolgesse a Palamara per promuovere magistrati a lei vicini, rivendicando per loro i posti che nella ripartizione correntizia erano destinati a Unicost.

Per questo in Terza commissione - dove si discute dei fuori ruolo - i quattro togati si erano astenuti e il via libera era arrivato solo dai laici Felice Giuffrè (FdI) e Enrico Aimi (FI). In plenum, invece, le astensioni del gruppo di Unicost hanno permesso di far bastare i 14 sì espressi dal gruppo di Magistratura indipendente, più tutti i laici del centrodestra, il renziano Ernesto Carbone e la prima presidente della Cassazione Margherita Cassano.

Tra gli interventi più duri sull’inopportunità del fuori ruolo c’è stato quello dell’indipendente Andrea Mirenda, che ha definito Sinisi «un punto di riferimento» per chi aspirava ai ruoli di vertice, in virtù del suo rapporto con Palamara ed è tornato a chiedersi come mai non sia stata esercitata nei suoi confronti una azione disciplinare. 

A favore di Sinisi ha giocato invece, come spiegato da Giuffrè, la recente sentenza del Consigli di Stato secondo cui «la partecipazione del magistrato alle chat di Palamara non può essere considerata un elemento preponderante in presenza di altri indicatori tutti largamente positivi». In sintesi, è la tesi del laico, se le chat andassero prese in considerazione, questo dovrebbe valere sia per i magistrati citati che per quelli che vi hanno partecipato, altrimenti si userebbero «due pesi e due misure».

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