Il settore legale non fa eccezione alla regola per cui - nel paese, anche in tempi di pandemia – gli interessi e i diritti individuali che non si organizzano e non esprimono una rappresentanza in grado di esercitare pressione a livello politico, sociale e di opinione pubblica sono destinati ad avere la peggio, anche rispetto a interessi di rango inferiore.  

Così, fa parte dell’insieme variegato dei giovani che hanno visto il loro percorso di formazione e apprendimento bruscamente interrotto o reso estremamente accidentato e precario, un sottoinsieme di  quasi 25mila laureati in Giurisprudenza che, a metà dicembre, avrebbero dovuto sostenere il temutissimo esame di stato per conseguire l’abilitazione alla professione forense in vista dell’iscrizione al relativo albo; un esame che, in anni normali, opera un’implacabile selezione tra aspiranti che hanno già espletato almeno  18 mesi di tirocinio, la cosiddetta pratica legale.

Infatti, il 9 novembre scorso il Comitato tecnico scientifico istituito presso il Dipartimento della Protezione Civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha diramato un parere secondo il quale l’accesso di centinaia o migliaia di candidati presso le sedi di esame, l’impossibilità di prevenire assembramenti e la  durata temporale prevista per le prove di esame costituiscono fattori di criticità molto rilevanti nell’attuale quadro sanitario e hanno impedito lo svolgimento delle prove nelle date programmate, ovvero il 15, 16 e 17 dicembre 2020.

La conseguenza è uno slittamento che rinvierà di mesi o anni (l’esame prevede una prova orale a cui accedono solo i candidati che hanno superato le prove scritte) l’accesso anche dei più meritevoli tra questi giovani alla professione e congelerà tutti in quel limbo di precarietà che già ora esiste tra la laurea e il conseguimento dell’abilitazione.

L’esame è anacronistico

Come ben ricordano quelli che “ci sono passati”, l’esame di avvocato è uno snodo fondamentale della vita lavorativa. Per questa ragione, per quanto ci si debba rassegnare al fatto che quest’anno esso risente di un evento eccezionalmente calamitoso, è difficile accettare che il suo impianto del tutto anacronistico (temi e atti scritti a mano da centinaia di partecipanti, presenti in più giorni in un unico luogo fisico) e la totale assenza di programmazione abbiano nei fatti ritardato sine die per quasi 25 mila dei nostri migliori giovani (laureati, con una lunga fase di apprendistato alle spalle) l’accesso alla professione che hanno scelto di esercitare.

Non è questa la sede e l’occasione per rimpiangere la riforma dell’esame di avvocato che non c’è stata e che, oltre a farci trovare pronti per questa tragica evenienza, avrebbe potuto eliminare incrostazioni di decenni di pigrizia burocratica e difese corporative. 

Si può e si deve, invece, prestare ascolto quello che hanno da dirci le decine di praticanti che lavorano con impegno e profitto in un grande studio legale “d’affari”, termine questo che ai non addetti ai lavori farà pensare a qualche serie televisiva, e che definisce molte realtà attive a livello nazionale e soprattutto internazionale, che costituiscono la punta più avanzata dell’avvocatura. 

Con il sostegno dello studio, questi praticanti si sono a lungo confrontati tra loro e con i colleghi più anziani e hanno raccolto alcune idee, principalmente dirette a superare l’emergenza di quest’anno, ma così attuali e impellenti (e, per altri versi, scontate per chi vive la professione del 2020, anche come cliente) da poter costituire una solida base per una riforma più ampia.

Ipotesi di riforma

Il punto su cui si registra la convergenza più netta è  la richiesta, per quest’anno, che la prova di esame si svolga solo in forma orale. Non si tratta della soluzione migliore in assoluto per una professione che attribuisce ancora valore centrale alla forma scritta,  ma è probabilmente l’unica che, nelle circostanze date, permetterebbe di contenere i tempi (così evitando alla “leva” del 2020 di perdere un anno) e di garantire il distanziamento. L’esame orale potrebbe anche svolgersi con candidato e esaminatori situati in luoghi diversi e collegati in videochiamata, dal momento che anche con questa modalità i secondi non avrebbero difficoltà ad accorgersi se il primo si avvalesse di aiuti “esterni”, con le conseguenze del caso.

In secondo luogo, se esame scritto deve essere, sarebbe agevole ridurre il numero dei partecipanti prevedendo due sessioni nell’anno, come già avviene per altre libere professioni (ad esempio i dottori commercialisti) e con ciò alleviando difficoltà logistiche attualmente insormontabili (reperimento di una sede abbastanza capiente, distanziamento, misure igienico-sanitarie, controlli all’ingresso e nel corso dello svolgimento delle prove).

Analogo effetto deflattivo e di semplificazione si otterrebbe se, all’opposto di quanto avviene oggi, il mancato superamento della prova orale non invalidasse l’esito in ipotesi positivo delle prove scritte, e ai candidati fosse consentito di ripresentarsi almeno una volta alla prova orale senza dover ripetere anche gli scritti.  E’ noto che  proprio questa regola rende l’esame un’ordalia, che lascia i candidati in una condizione di totale incertezza circa il loro futuro professionale talvolta per molti anni, se si considera che in periodi normali il candidato migliore e più efficiente nella gestione dei tempi, tra tirocinio e prove d’esame scritte e orali, impiega un minimo di 30 mesi per raggiungere il traguardo.       

Usare il pc e le banche dati

Le prove scritte dovrebbero poi svolgersi secondo modalità le più simili possibile a quelle in cui si lavora negli studi legali, e cioè utilizzando un personal computer e consentendo l’accesso alle banche dati con cui normalmente, oggigiorno, si conduce una ricerca legale.  Non ha infatti più alcun senso la regola che vuole che le prove d’esame siano vergate a mano dai candidati su fogli protocollo e con il solo ausilio di codici commentati, perché ciò colloca le prove in una bolla primo-novecentesca senza alcuna attinenza con la realtà, oltre che priva di qualunque utilità se l’intento è quello di valutare l’idoneità dei candidati a svolgere la nobile professione dell’avvocato, e non la loro calligrafia.

E del resto, in tempi di Covid-19, per quale ragione l’intera commissione esaminatrice dovrebbe maneggiare, per correggerle, le sudate carte dei candidati ?

Come ha osservato il gruppo di lavoro, un sistema ben più efficace per saggiare la preparazione di base dei candidati e l’acquisizione da parte loro, attraverso la pratica, di un metodo per la soluzione di problemi giuridici di qualunque natura, più che l’immagazzinamento di nozioni teoriche, sarebbe poi quello (ormai utilizzato in tutte le facoltà di giurisprudenza e negli esami di abilitazione nei paesi avanzati), dell’esame “a crocette” o a scelta multipla  (multiple choice).

Tale sistema, oltre a poter essere utilizzato da remoto senza rischi e a permettere la correzione con strumenti informatici, presenterebbe l’indubbio vantaggio di non prestarsi a disparità di trattamento da parte delle commissioni, o di membri della stessa commissione, o anche dello stesso membro a distanza di tempo, che può derivare oggi anche dal fatto che la correzione dei temi si protrae per mesi.  

Ma qui l’ostacolo principale sembra rappresentato (oltre che dalle norme di legge in vigore) dalla burocrazia ministeriale che, a un lavoro connotato da un approccio scientifico e dal metodo statistico, evidentemente continua a preferire la traccia aperta, del tutto simile al titolo di un tema di liceo, più o meno vagamente ispirata a qualche precedente giurisprudenziale e priva di qualunque riferimento documentale; traccia che poi consente ai candidati di spaziare, talvolta “fuori tema”, e ai correttori di giudicare con un alto grado di discrezionalità. 

Anche in questo, la prova d’esame appare ispirata a logiche ormai opposte a quelle che guidano o dovrebbero improntare la prestazione professionale dell’avvocato moderno, e cioè la fruibilità del documento scritto da parte del suo destinatario (sia esso un giudice o un cliente, un giurista o un non giurista), la chiarezza dell’esposizione e l’aderenza ai fatti e ai documenti, a cui gli avvocati richiamano ossessivamente i giovani colleghi. 

Logiche, che, s’intenda bene, si sposano perfettamente con la profondità dell’analisi giuridica,  la conoscenza delle fonti e la validità delle conclusioni in funzione della soluzione del problema affrontato, e assai meno bene con il linguaggio iniziatico e i tempi dilatati di modelli di lavoro ormai superati e incompatibili con le aspettative di clienti in carne e ossa.

Alcuni propongono soluzioni più radicali, osservando come lo stesso percorso di studi della facoltà di Giurisprudenza, così com’è attualmente strutturato, presenta delle criticità anche nella transizione dallo studio al lavoro, transizione in cui si avverte una forte discrasia tra i due mondi, con il primo che fornisce una preparazione prevalentemente teorica e astratta, meno utile a risolvere i problemi  della vita reale,  a partire da quelli che viene chiesto di affrontare nella professione.

L’avvocato non è più una professione generalista

Da più parti si osserva, inoltre, che l’esame di avvocato è tuttora concepito come una prova di accesso a una professione “generalista”. Diversamente, l’esperienza dimostra che, se è pur vero che molti avvocati, soprattutto fuori dai grandi centri, trattano materie diverse con il comune denominatore del contezioso, negli studi più strutturati il percorso di specializzazione inizia molto presto, fin dal tirocinio. Ciò fa sì che difficilmente i giovani avvocati frequenteranno le aule di giustizia, salvo che scelgano di dedicarsi proprio al contezioso (civile, amministrativo o penale che sia: anche tra questi è richiesta una specializzazione). La specializzazione degli avvocati è del resto in via di riconoscimento e attuazione dopo un percorso legislativo e giudiziario estremamente travagliato.

Si può ovviamente discutere se questa specializzazione precoce non ostacoli la formazione di una solida base “generalista”, che dovrebbe garantire l’assimilazione e l’elaborazione di un metodo (meglio che di mere nozioni) utile ad affrontare le sfide della professione.

E’ vero, d’altro canto, che questa base dovrebbe essere stata costruita durante l’università e che essere costretti a ristudiare il diritto ecclesiastico (con tutto il rispetto per questa nobilissima materia) per l’esame, dopo che per anni ci si è occupati di contratti derivati o di protezione dei dati personali, non contribuisce granché alla formazione e neppure alle motivazioni dell’aspirante avvocato, né come generalista, né come specializzando.  

Separare la carriera giudiziale e stragiudiziale?

Anche senza arrivare alla soluzione estrema di separare le carriere tra  giudiziale e non, mantenendo l’esame d’avvocato solo per coloro che intraprendono la prima (il cui perimetro finirebbe così per coincidere con l’attività riservata agli iscritti all’albo, mentre come è noto la consulenza nelle materie legali può essere svolta anche da non iscritti), e quindi volendo far salvo il principio secondo cui l’accesso alla professione è comunque condizionato al superamento dell’esame perché solo questo consente la certificazione dell’idoneità e comporta l’assoggettamento alle norme che ne disciplinano l’esercizio (incluse quelle deontologiche), è evidente che un esame ripensato secondo simili direttrici dovrebbe corrispondere meglio alla realtà della professione oggi.

Così, ad una verifica della conoscenza delle materie fondamentali e del metodo, per esempio attraverso i quiz, potrebbe seguire una seconda prova sulla materia di specializzazione (un atto giudiziario, un contratto o un parere), in cui il candidato verrebbe testato sulle competenze teoriche, ma anche pratico-operative e orientate al problem solving, di cui dispone. 

In tal modo – meglio che con il sistema attuale - gli esaminatori potrebbero rendersi conto del grado di maturità raggiunto nel percorso di formazione dell’aspirante avvocato e la sua attitudine a continuare il percorso con il bagaglio di competenze acquisito fino a quel momento.

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