La confusione è ancora grande sotto il cielo ma, come sempre in caso di nomine di peso, gli astri si allineano sempre nell’ultimo momento utile. Così dovrebbe essere anche per l’elezione dei giudici costituzionali mancanti, ormai lievitati fino a quattro, che il parlamento in seduta comune è chiamato a indicare nella seduta di martedì 14 gennaio e dopo ben dodici scrutini andati a vuoto. A dimostrazione di questo, la Consulta ha diramato un comunicato stampa in cui si spiega che l’attuale presidente facente funzioni Giovanni Amoroso ha posticipato dal 13 al 20 gennaio la camera di consiglio per decidere sull’ammissibilità del referendum sull’autonomia, «considerata la convocazione per l’elezione dei giudici».

Del resto il tempo è ormai abbondantemente scaduto, come anche la pazienza del Quirinale e degli stessi giudici costituzionali ormai ridotti a 11, col risultato che se solo uno si prendesse un malanno di stagione i lavori del collegio andrebbero sospesi. Eppure, dentro e soprattutto fuori dal parlamento è ancora tutto un turbinio di telefonate per trovare la quaterna che otterrà i tre quinti dei voti necessari per sedere a palazzo della Consulta.

Gli incarichi sono di prestigio e fanno gola a molti, per questo una soluzione ancora non si è trovata. Da una parte la premier Giorgia Meloni ha provato a forzare, imponendo il nome dell’autore della riforma del premierato, Francesco Saverio Marini; dall’altra il Pd è riuscito a sabotare il tentativo ma non a mettere sul tavolo una soluzione di compromesso.

La composizione

Attualmente l’accordo sui numeri è chiaro: due nomi spettano alla maggioranza, uno all’opposizione e uno dovrà essere tecnico. Tra tutti – secondo i desiderata del Colle – uno dovrebbe essere femminile, per sostituire l’ex presidente Silvana Sciarra. La spartizione da manuale Cencelli ha fatto inorridire i costituzionalisti («una frode», l’ha definita il costituzionalista Andrea Pugiotto, perché «l’imparzialità della carica deve apparire tale fin dalla designazione») anche perché l’attesa per la nomina “a pacchetto” crea un precedente, visto che i quattro nominati scadranno nella stessa data, riconsegnando al parlamento la stessa possibilità spartitoria tra nove anni. Non ha però stupito chi conosce le difficoltà di questa fase politica.

Il fronte più teso è quello dentro i dem. Molti parlano, nessuno offre certezze se non una: «La pratica ora è in mano alla segretaria». E Elly Schlein ad oggi sarebbe ancora ferma sul costituzionalista toscano Andrea Pertici che – secondo qualche collega – starebbe lavorando per darle ogni rassicurazione sulla bontà della scelta. Tuttavia, la segretaria è cosciente di come il gradimento interno sul nome sia basso. «Così Schlein rischia di rimanere con il cerino in mano», dice un membro di peso dell’assemblea dem. Questo perché è ormai noto che Pertici non solo non convince il Pd, ma non trova nemmeno sponda nelle altre opposizioni. Ha il neo di aver difeso davanti alla Consulta la procura di Firenze nel conflitto di attribuzioni per le intercettazioni su Matteo Renzi e questo lo rende indigeribile per Italia Viva, ma anche Cinque stelle e Azione sarebbero più che scettici su un nome che porta solo il marchio della segretaria dem. Per questo filtrano altri due profili di area: quello del professore ed l’ex parlamentare Stefano Ceccanti e dell’ex presidente dell’associazione dei costituzionalisti, Massimo Luciani, che gode di molta stima nel partito e sarebbe il nome preferito. La questione, però, è anche far convergere almeno una parte delle opposizioni per raggiungere i tre quinti e un nome che sta crescendo è quello della avvocata generale dello Stato, Gabriella Palmieri Sandulli, che non dispiace al Movimento.

Sul fronte del centrodestra, chi segue il dossier ha spiegato che i giochi si stanno chiudendo. Questo lo scenario: la Lega nulla ha di che pretendere perché già ha un giudice di riferimento in Luca Antonini, FdI invece è decisa su Marini. Il secondo nome, in quota Forza Italia, è più problematico e si confrontano due nomi: l’avvocato veneto Pierantonio Zanettin contro il barese e viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto. «Il primo è favorito soprattutto da incastri parlamentari», spiega una fonte azzurra, perché libererebbe un collegio plurinominale e al suo posto tornerebbe l’ex senatrice Roberta Toffanin, attualmente consulente del ministro Gilberto Pichetto Fratin, che per questo preme in favore di questa soluzione insieme alla collega Anna Maria Bernini, anche lei legata a Toffanin. «Ma in ballo ci sia un ruolo di rilevanza costituzionale», viene fatto notare dalla parte più critica del partito, che sta facendo pressioni in questo senso su Antonio Tajani, cui spetta l’ultima parola. Sisto, infatti, è considerato uno dei profili più preparati ed è del Sud, sottorappresentato per ruoli in FI. Non solo, per integrare il collegio della Corte sarebbe utile un penalista di esperienza – cosa che Sisto è – mentre Zanettin si occupa di civile. Il contrasto interno è forte: chi sostiene Zanettin spiega che muovere Sisto dal governo sarebbe infattibile, gli altri alzano le spalle: «Viene detto solo per bruciarlo, altrimenti il discorso avrebbe dovuto valere anche per Raffaele Fitto?». Per ora i due continuano ad essere testa a testa e l’ultima parola spetterà al vicepremier e segretario Antonio Tajani.

Apparentemente risolto, invece, è il nome su cui convergono sia la quota tecnica che quella di genere. Dopo il tramonto di Renato Balduzzi a causa di suoi incarichi nel governo Monti, a spuntare è stata la professoressa di Diritto tributario di Foggia, Valeria Mastroiacovo. «Il suo potrebbe essere il nome giusto», si sbilancia un informato esponente di maggioranza. Vicina ad ambienti cattolici, nessun incarico politico alle spalle, il suo profilo è stato segnalato dal Pd e validato dalla Lega, visto che dal 2018 è assistente di studio di Antonini presso la Corte. Finché il nome non finirà nell’urna, però, il condizionale è d’obbligo.

Nella gran confusione, quindi, un ordine si sta iniziando a trovare e le ultime ore saranno decisive: il voto è a scrutinio segreto e l’accordo deve essere blindato, con un margine numerico a prova di franchi tiratori.

© Riproduzione riservata