Ho letto quello che tutti chiamano “Recovery plan”, e naturalmente con particolare attenzione le pagine dedicate alla giustizia civile. Non è un nuovo piano Marshall: in realtà, le risorse aggiuntive sono più o meno la metà del tutto. Peccato.

Il progetto per la giustizia è in parte un libro dei sogni, per altra è condivisibile, ma manca del coraggio necessario per intaccare privilegi consolidati.

Il primo intervento previsto è la riforma del processo civile (attualmente all’esame del Senato) che dovrebbe semplificarlo ed accelerarlo. Da quando ho cominciato a lavorare io è – se non vado errato – la diciassettesima riforma del processo civile, e pure quelle precedenti, tutte e sedici, promettevano lo stesso risultato: non mi aspetto miracoli.

Luci e ombre

Intendiamoci, alcune idee sono buone: ottima la soppressione del filtro in appello, ed anche la articolazione della fase di sospensione della esecutorietà della sentenza di primo grado è un miglioramento.  Ma non credo affatto che abolire il procedimento sommario (che il precedente Ministro della giustizia voleva invece estendere a tutte le cause) e denominare “semplificato” il rito che oggi chiamiamo “ordinario” cambierà granché.

Questo, per la semplificazione; quanto alla durata, basta far di conto: prima e dopo la cura, passeranno esattamente lo stesso numero di giorni (170) tra l’atto introduttivo del giudizio, ed il momento in cui si completano le richieste delle parti (sempre che i giudici rispettino il termine previsto per la fissazione della prima udienza). Ma avremo abbandonato soluzioni condivise per altre inesplorate: non credo sia un vantaggio.

Ma il piano non è limitato alla riforma del processo, o alla generica intenzione di incentivare le ADR, senza però garantire sgravi fiscali.

E’ prevista la introduzione di cinquanta magistrati onorari nella sezione tributaria della Cassazione.

Ora, è noto che l’art. 106 della Costituzione consente da sempre la possibilità di inserire nei ranghi della Corte docenti universitari ed avvocati che si siano contraddistinti per meriti insigni, ed è facoltà che è stata giustamente centellinata: se si commette un’ingiustizia lì, non c’è rimedio.

Il nodo dei giudici onorari

Oggi, che la Corte Suprema ha sollevato la questione di costituzionalità della presenza in appello di giudici onorari, alcuni di loro fanno lo sciopero della fame perché si sentono sfruttati, e la Corte europea ha reso una sentenza le cui conseguenze dovranno essere approfondite adeguatamente, ne inseriamo altri cinquanta tra togati e meriti insigni? Anche ammesso che ad addestrarli alle logiche del giudizio di legittimità non si perda più tempo di quanto faranno risparmiare agli altri, è una rottamazione.

Sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, si parla tanto di efficienza, ma il problema è sempre lo stesso: della valutazione della efficienza della organizzazione degli Uffici, e quindi della professionalità dei loro Capi, continueranno ad occuparsi soltanto quegli stessi colleghi che li hanno nominati. Si cambia tutto, perché possa non cambiare niente.

Basta andare a verificare le percentuali delle valutazioni di professionalità che oggi si leggono sul sito del Consiglio superiore della magistratura per rendersi conto che nemmeno nella Bulgaria degli anni 70 c’era un consenso così unanime: raggiunge la eccellenza una quota compresa tra il 96 ed il 99,6%  dei Capi degli Uffici. Viene da chiedersi perché si vuole riformare la giustizia, se viviamo nel migliore dei mondi possibili, e forse è per questo che la richiesta dell’Europa di introdurre strumenti di rilevazione del grado di soddisfazione della utenza è rimasta lettera morta: avrebbe rovinato le percentuali.

Ma la verità è che per migliorare la efficienza – parlare di “efficienza”, nel mondo della giustizia, significa trovare un equilibrio ragionevole tra equità e rapidità, tra una sentenza pronta ed una sentenza giusta – della giurisdizione occorrono risorse, umane e materiali, e tante.

L’ufficio del processo

Nel progetto sono previste, e questo sicuramente è un bene: il primo, massiccio intervento, è sull’ufficio del processo.

Per conto delle Camere civili, lo avevo proposto al ministro Alfonso Bonafede alcuni mesi fa, ma quello era basato sulla analisi di ciò che è accaduto nel passato recente, e non sulle nostre convinzioni personali.

Avevamo preso la delibera 18 giugno 2018 del Csm, che aveva imputato il fallimento dell’Ufficio del processo non solo alla carenza di risorse, ma anche alla scarsa propensione di molti magistrati a collaborare con i tirocinanti, ed eravamo partiti da lì, cercando di suggerire soluzioni per entrambe le criticità rilevate: chiedevamo di stanziare risorse, ma anche di premiare coloro che avessero saputo farlo funzionare. Oggi, si ipotizza di assumere a termine 11.000 persone (benissimo!) ma nessuno si preoccupa di cosa fare per evitare quel rifiuto di molti giudici di collaborare con loro.

Ecco, devo dire che questo non mi piace per nulla: se il Csm ha indicato, tra le cause del fallimento dell’Ufficio del processo, anche le colpe di molti magistrati, perché non intervenire pure su quelle, magari con incentivi, non con punizioni? Perché si continua a rifiutare l’idea che i giudici abbiano non solo il potere, ma anche il dovere di gestire in maniera efficiente quei processi che sono sì affidati a loro, ma che sono, e restano, dei cittadini? Tutti abbiamo cuore la indipendenza dei magistrati, e forse noi avvocati persino più di loro perché ci garantisce un giudizio imparziale: ma cosa c’entra la indipendenza delle decisioni con la efficienza della organizzazione?

Insomma, più ombre che luci, e soprattutto la sensazione che tutto venga gestito in un’ottica soltanto emergenziale, di smaltimento, che è incompatibile con quella della giustizia, soprattutto civile.

I processi civili regolano la vita di una collettività, garantiscono la equità dei rapporti sociali, tutelano la dignità e la indipendenza dei cittadini, e  raccontano la storia – familiare, affettiva, lavorativa, ecc. – di esseri umani. Non devono essere rottamati: basta, ricorrere a precari e pensionati per tappare le falle di un sistema che dovrà continuare a funzionare anche quando i soldi dell’Europa saranno finiti.

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