Per chi crede che i processi siano una cosa seria e che il metro di giudizio del grado di civiltà giuridica di uno stato passi anche attraverso i confini e le garanzie della difesa di chi è accusato di un reato, gli ultimi dieci giorni sono stati davvero importanti.

L’occasione è stata la pubblicazione delle motivazioni della sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise di Roma nei confronti di due giovani americani, accusati di aver ucciso un carabiniere nel luglio del 2019 e per tale ragione condannati alla pena perpetua dell’ergastolo.

Si legge nel provvedimento che gli avvocati difensori degli imputati avrebbero esercitato “il diritto di difesa al limite del consentito e della decenza”. E poi ancora: “Perché tutte quelle insinuazioni volte a screditare l’operato dei carabinieri ipotizzando financo dei reati?”.

La lettura dei due passaggi sopra citati ha scatenato un vero e proprio terremoto tra gli avvocati penalisti, scesi in campo a difesa della difesa.

Le Camere Penali e l’Unione delle Camere Penali hanno levato la propria voce, rivendicando il dovere di difendere, in ogni processo, ogni imputato, con i soli limiti imposti dalle regole procedurali e senza subire imposizioni da chicchessia.

Il confronto culturale arriva oggi ad un livello di scontro inevitabile, al quale non avrebbe senso sottrarsi.

Il giudice e la difesa

Se un giudice ritiene di doversi ergere a tracciatore dei limiti della difesa, non certo di natura procedurale, perché quelli li ha stabiliti il legislatore e sono ben chiari a tutti, allora non è fuori luogo ritenere che sia a rischio l’intera tenuta del sistema giudiziario.

Se chi dovrebbe essere terzo ed equidistante da accusa e difesa ha un bagaglio culturale e giuridico che lo porta a stigmatizzare l’essenza del diritto di difendere, vale a dire l’esercizio del contraddittorio, anche aspro e forte, sulla prova, tanto da ritenere quasi blasfemo mettere in dubbio la parola delle forze dell’ordine che rivestono la posizione di testimoni, allora occorre riflettere quanto lontani si sia ancora da un sistema realmente liberale.

Noi avvocati l’abbiamo sempre saputo, ma le parole della Corte d’Assise hanno avuto il pregio di far emergere l’ipocrisia di chi mal sopporta da trent’anni l’idea che il contraddittorio sia il metodo migliore, non perfetto, ma migliore, per arrivare più vicini a qualcosa che possa assomigliare alla verità.

Il difetto del contraddittorio è che pone dei dubbi, mina le certezze dell’accusa e non raramente apre spiragli a verità alternative.

Il contraddittorio è confronto, di metodo e di idee.

Il contraddittorio è la linfa vitale dei sistemi liberali, ma è complicato, pesante, per chi ritiene di avere in anticipo convinzioni che non devono trovare battute d’arresto.

A ben pensare il processo restituisce un quadro non molto diverso da quello della vita, della politica, della società.

Da sempre si contrappongono coloro che pensano di avere una verità e una soltanto e coloro che si aprono al confronto, perché hanno dubbi che partono dalla consapevolezza che una verità aprioristica in fondo sia pericolosa e fuorviante.

Nel processo ci sono gli avvocati, che difendono il diritto/dovere di porre dei dubbi, anche attraverso la possibilità di screditare l’operato di chi rappresenta lo Stato, e poi ci sono alcuni magistrati (per fortuna non tutti), pubblici ministeri e giudici, ancora saldamente uniti nelle loro inseparabili carriere, che mal sopportano che si eserciti il contraddittorio nella formazione della prova.

Perché è faticoso, intellettualmente e tremendamente faticoso, come lo sono tutte le risposte da dare a domande che pongono dubbi vertiginosi e creano sgomento.

Il rischio di decisioni “etiche”

Però difendere trova la sua essenza proprio nel porre domande e dubbi, per offrire al giudice un altro angolo visuale di un qualsiasi fatto.

Se fare questo infastidisce a tal punto dal doverlo scrivere in una sentenza, allora è davvero chiaro come il giudice non possa ritenersi equidistante tra le parti.

Se fosse terzo dovrebbe essere felice di avere un aiuto, quello della Difesa, per arrivare ad una verità, per porsi dei dubbi e provare a superarli.

Ma così non è.

Da dove parte questa concezione così lontana dall’idea del valore del confronto?

La risposta ce la offrono ancora i giudici romani, quando si arrogano il compito di individuare i limiti della difesa.

E in questi confini indicano il limite etico, evocando addirittura i canoni della decenza e dell’indecenza.

Quando un giudice fa propria l’etica quale principio informatore ed ispiratore della decisione si è già nella pericolosa deriva moralista che si affianca a quella giustizialista.

Il moralismo non può e non deve appartenere al processo, perché i canoni del giudizio etico devono rimanere estranei alla valutazione delle umane condotte, legati come sono alla personale cultura di ognuno di noi.

Lo stato di diritto, che dobbiamo difendere di nuovo senza limiti, non può soccombere di fronte al rischio di decisioni “etiche” proprie di un modello di Stato che molto assomiglia allo stato di polizia.

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