A quanto pare c’è ancora da lavorare sul Recovery Plan. Le têtes de chapitre, però, sono segnate. Ed è certo, ad esempio, che continueremo a discutere, anche per questa via, di riforma della giustizia.

Riforma della giustizia vuol dire molte cose: fra queste, dibattito sulle, vere e presunte, disfunzionalità nell’articolazione dell’ordinamento giudiziario, ritenute causa di uno strapotere delle procure e di una lesione su vasta scala dei principi del giusto processo e della parità delle parti.

Risentiremo ancora la richiesta, che sempre rinverdisce come l’arancio di San Domenico nel chiostro di Santa Sabina all’Aventino, di una separazione radicale fra la funzione requirente e quella giudicante.

Il sistema accusatorio

La coerenza interna del sistema accusatorio, si dice, porta in questa direzione. E non è un caso che negli ordinamenti anglosassoni, dove origina questo modello processuale, chi esercita l’accusa in giudizio non sia affatto un magistrato. Addirittura, in Inghilterra, fino all’Ottocento inoltrato non era nemmeno un funzionario pubblico, essendo la private prosecution una regola e non un’eccezione.

Solo un’illusione positivistica, però, può pensare che basti la norma scritta a creare - o importare - un modello. Per capire i punti di equilibrio del sistema istituzionale, ed eventualmente modificarli in meglio, è necessario confrontarsi, invece, con una dimensione diversa e ulteriore della giuridicità, che alligna negli strati profondi della coscienza sociale, e si nutre di sentire condiviso, sedimenti storici e retaggi culturali.

Per capire di cosa parliamo davvero quando parliamo di separare la pubblica accusa dalla giurisdizione, bisogna addentrarsi in questa dimensione.

La giurisdizione, l’atto di dire il diritto, è non solo atto tipico del giudice, ma, per tutto il lungo medioevo giuridico europeo, è stata la categoria che esauriva ogni manifestazione del potere pubblico. Ed è per questo che, anche dopo il primo apparire dello Stato moderno e il cambiamento radicale della grammatica giuridica e politica, ogni potere rimase, per lungo tempo, affidato a dei magistrati. Il ceto dei giuristi – la Robe – custodiva il segreto dell’intero macchinario, grandioso e tremendo, della sovranità.

La cultura di questo ceto – cultura della giurisdizione – sopravvisse alla Rivoluzione in una forma dimidiata, ma non irriconoscibile: i magistrati degli ordinamenti continentali (come il nostro) sono sempre rimasti dei giudici professionali, che si legittimano agli occhi del corpo sociale in virtù di una selezione (pensata come) rigorosa, obiettiva, affidabile, che li costituisce e li fonda in una identità collettiva, e che in ciò non differisce, in fondo, dalla cooptazione d’Antico regime.

Il giudice istruttore

Ma che cosa vuol dire cultura della giurisdizione? Soprattutto, un perpetuo (e mai compiuto) esercizio di comprensione dell’intima natura del potere pubblico, di cui si esercita una frazione.

Il potere ha una essenza abissale, terribile, oscura, come insegnano (a citarne solo, idiosincraticamente, alcuni) Agamben, Foucault, Schmitt; chi lo maneggia brandisce una lama senza elsa, che può ferire chi la impugna nello stesso momento in cui affonda il colpo nelle carni della vittima.

E’ in questo solco profondo e lungo che si comprende davvero perché il vecchio codice di procedura penale del 1930 onerasse di un fardello così apparentemente squilibrato la figura del giudice istruttore, oggi scomparsa. Quello, per intenderci, che secondo l’art. 299 doveva far di tutto per cercare di giungere alla verità – la verità, senz’altra specificazione.

Bella pretesa, si direbbe, e disposizione, beninteso, criticatissima da quanti hanno ritenuto che, in democrazia, l’unica verità che possa attingere il processo è debole: un prodotto, semmai, della logica argomentativa.

Non si trattava, forse, tanto di un portato dell’autoritarismo fascista, quanto di un’ascendenza molto più remota. Prima della comparsa di “regole del gioco” che cercassero in radice di circoscrivere, delimitare, ingabbiare il potere pubblico (quelle della democrazia costituzionale), lo Stato moderno europeo trovava una sua forma di garanzia dei diritti nel processo proprio nello stesso peso che gettava sulle spalle del magistrato: lo costringeva a confrontarsi con l’abissalità del potere, eliminato ogni diaframma fra di lui e le conseguenze dell’esercizio di quel potere; lo poneva di fronte a limiti non scritti, ma non per questo meno cogenti, leggi fondamentali che erano custodite dalla comunità dei giuristi nelle proprie rappresentazioni collettive.

Il senso del limite

Una traccia di questo “senso del limite”, che il magistrato era chiamato a presidiare, si avvertiva anche al tramonto del “vecchio” processo.

Per sentirne il sapore, basta tornare alle pagine di quel capolavoro che è Procedura di Toti Mannuzzu, figura esemplare fra i tanti giuristi-umanisti che il nostro sistema ha saputo produrre.

Il protagonista di quella storia è un giudice istruttore: un antieroe pieno di debolezze, anche professionali, un perplesso, un riluttante, in alcuni momenti perfino un inconcludente, che però sa far filtrare nel proprio ruolo – ma anche dal proprio ruolo, costretto com’è a compiere suo malgrado atti di indagine – una accorata comprensione dell’umano, che lo porta a far vera giustizia.

Il nostro sistema è indelebilmente segnato dalla statualità di conio continentale, col suo portato, la sovranità, costruzione teorica che legittima la massima espansione del potere pubblico. Ma se questo è vero, allora, non è proprio un male che il pubblico accusatore sia ancora innanzitutto un magistrato, per come lo si è descritto finora: forse, se davvero la dinamica di riduzione del pubblico ministero a un semplice strumento di una pretesa punitiva fosse compiuta, alcuni dei vizi che oggi avvertiamo addirittura si accentuerebbero: spuntare alcune armi non sempre vuol dire rendere più innocuo un soggetto, perché lo può spingere ad usarne altre, per giunta in un contesto di crescente deresponsabilizzazione (“tanto poi se la vede il giudice”).

Forse, il problema – o uno dei problemi – è che un po’ di quella cultura della giurisdizione che faceva ritrarre, dubitare, ma infine anche agire per il meglio il protagonista del libro di Toti Mannuzzu, oggi si è persa; e ce ne vorrebbe di più.

Il meccanismo di selezione

Certamente non si vuol dire, nemmeno di lontano, che sia il caso di tornare indietro ad una previgente architettura del processo e dell’ordine giudiziario, e non è una nostalgia del tutto avulsa dalla realtà a parlare in queste righe.

Il processo inquisitorio è un ricordo del passato. Ma una sana avvedutezza della “linea” storica potrebbe risultare utile a una politica riformatrice coronata di qualche successo. Ad esempio, servirebbe a illuminare il legame fortissimo che c’è fra il meccanismo di selezione della classe giudiziaria, la cultura dei magistrati e la qualità del modo in cui esercitano i loro poteri.

In questa chiave, più che tentare rivoluzioni copernicane, sarebbe forse opportuno, ad esempio, rinnovare e rivedere una selezione divenuta ormai ingestibile, nella quale domina una visione miracolistica della vittoria concorsuale e fa premio un imparaticcio nozionistico del tutto privo di spessore di visione e cultura.

Potrebbe contribuire a ricreare una adeguata consapevolezza del vestire la toga; il che, a sua volta, aiuterebbe ad interrompere alcuni meccanismi che troppo spesso vediamo in azione, evitando però di scardinare, in questo stesso tentativo, e peraltro forse inutilmente, gli assi fondanti della nostra tradizione ordinamentale.

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