Mentre si discute sulle proposte di riforma della giustizia civile, che potrebbero essere sostenute dai fondi del Next Generation Eu, l’avvocatura rischia di disperdere - proprio a danno degli avvocati più giovani, ma anche a miglior riconoscimento di quelli già esperti - una grande occasione per adeguarsi alle necessità di persone e imprese, in un mondo sempre più complesso e senza confini, reali o virtuali. Parlo delle specializzazioni forensi, cioè dei modi per il riconoscimento del titolo di “avvocato specialista”, del quale si parla da almeno due decenni e da otto anni è previsto (ma inattuato) per legge, dal nuovo ordinamento forense (legge 247/2012).

La legge forense affida a un Regolamento ministeriale l’attuazione della specializzazione. Dopo una falsa partenza del 2015 (Dm Giustizia 144/2015), con un elenco di materie di specializzazione sanzionato dal Tar e dal Consiglio di Stato, ora sembrava che si potesse finalmente partire, dopo l’emanazione di un decreto correttivo (Dm 163/2020) entrato in vigore a fine anno.

Immancabilmente i grandi ordini degli avvocati di Roma, Napoli e Palermo, com’era già avvenuto nel 2015 (per la verità, allora, non senza buone ragioni) hanno deliberato di impugnare al Tar Lazio anche il nuovo regolamento, in ciò seguiti da altri ordini territoriali e dall’Unione regionale del Lazio. Altre analoghe iniziative sono in corso da parte di gruppi di avvocati e associazioni contrarie alla riforma o che non ne condividono punti specifici.

La vicenda somiglia purtroppo a un grande gioco dell’oca, i cui passaggi normativi e giurisdizionali sono noti agli addetti ai lavori e non appassionano tutti gli altri.

Al di là delle legittime posizioni contrarie, colpisce la pretestuosità di alcune censure e, se è consentito dire, la miopia rispetto alla domanda di “servizi legali” di qualità, alle necessità e aspettative dei giovani avvocati, che sono la grande maggioranza degli iscritti agli ordini.

A me, ringraziando Domani per l’ospitalità, interessa solo segnalare alcuni aspetti di ordine generale, sui quali tutti dovremmo riflettere.

I settori

Le specializzazioni non si applicano solo al settore civile, naturalmente, ma anche a quello penale e a tutti gli altri ambiti della giurisdizione (amministrativa, tributaria, contabile). Dovrebbe essere ovvio per tutti, come è acquisito da decenni in altri settori quali la medicina e la professione medica, ma anche l’ingegneria e un po’ tutti gli ambiti scientifici e umanistici (sia pure con diverse conseguenze e necessità normative), che non è più il tempo dei tuttologi. La consapevolezza è comune anche ai magistrati, che ormai (pur tra molte contraddizioni) individuano nella specializzazione basata sull’esperienza negli incarichi precedenti, ma anche sulla formazione e gli aggiornamenti presso la Scuola superiore della magistratura, uno dei principali criteri nell’assegnazione degli incarichi.

I tempi della giustizia sono un problema soprattutto organizzativo che riguarda il ministero e la stessa magistratura, e solo marginalmente gli avvocati, sempre più consapevoli dell’importanza di una decisione tempestiva, al punto che - soprattutto nei grandi studi internazionali, più orientati all’efficacia del risultato che all’affermazione di un principio che il tempo può rendere sempre meno esigibile, o al ripristino di uno stato divenuto materialmente impossibile - la litigation è un’attività quantitativamente marginale rispetto a quelle finalizzate alla prevenzione del conflitto o, quando si sia manifestato, alla sua mediazione o conciliazione.

E tuttavia bisogna ammettere che una più diffusa specializzazione degli avvocati contribuirebbe in modo significativo alla qualità della giurisdizione e, di conseguenza, anche alla sua tempestività (p.es. la giusta scelta della giurisdizione competente per materia e territorio), alla sua prevedibilità e stabilità.

Questa sensibilità è acquisita da almeno vent’anni da ampie fasce dell’avvocatura, e rappresenta l’obiettivo principale, se non addirittura fondante, di associazioni come le Camere penali, gli avvocati di famiglia, Agi - Avvocati giuslavoristi italiani, che presiedo e che è un’associazioni pluralista, formata da colleghi che assistono in modo prevalente e tendenzialmente esclusivo lavoratori dipendenti e autonomi, e loro sindacati; oppure imprese e associazioni di categoria. Ma tutti i soci (oltre 2mila i giuslavoristi di Agi) concordano sulla specializzazione e la formazione.

Per esempio lo Statuto di Agi prevede che possa iscriversi non l’aspirante giuslavorista, ma il collega già formato, per “comprovata esperienza” sul campo o per aver seguito specifici percorsi formativi, in particolare la scuola di Alta formazione in Diritto del lavoro, operativa dal 2004 e ora alla partenza del nono biennio, avendo finora “diplomato” oltre 650 avvocati giuslavoristi, sui mille inizialmente iscritti ai diversi bienni.

La formazione

Ciò significa che la formazione è stata avviata ben prima che la legge la prevedesse (e anzi quando qualificarsi “specialista” era perfino sanzionato sul piano disciplinare) e si è sempre più affinata al punto da essere già conforme ai criteri e ai requisiti previsti dalla legge: Linee guida che anticipano quelle che ora dovranno essere formalizzate in tutti i settori e indirizzi di specializzazione, collaborazione con gli ordini territoriali (l’ordine di Milano, la cui posizione è sempre stata favorevole e opposta a quella degli ordini ricorrenti al Tar) e l’università (Milano Bicocca, Firenze e Reggio Calabria) che esprime il coordinatore del Comitato scientifico; infine riconoscimento, dal 2017, da parte della Scuola superiore dell’Avvocatura del Consiglio nazionale forense.

Nei giorni scorsi, con i presidenti delle altre quattro maggiori associazioni specialistiche (Aiaf, avvocati di famiglia; Uncat, avvocati tributaristi; Unioni nazionali delle Camere civili e di quelle penali) ho firmato un comunicato congiunto per spiegare la diffusa contrarietà a un nuovo contenzioso giudiziario, che potrebbe ottenere l’effetto di rinviare ancora per alcuni anni una riforma sempre più necessaria e urgente, al fine di ottenere modifiche comunque marginali rispetto all’impostazione ormai consolidata del Regolamento.

La precedente bocciatura del 2017 riguardava non la struttura delle specializzazioni, ma due punti, sia pure di grande rilievo, e soprattutto l’elenco di materie di specializzazione.

Il nuovo decreto ministeriale correttivo, si è in tutto adeguato a quell’annullamento, e lo ha fatto attraverso un lungo iter che ha coinvolto tutta l’avvocatura, a cominciare dal Consiglio nazionale forense, che non soltanto ha reso il parere previsto dalla legge (dopo aver consultato in via telematica tutti gli ordini e le associazioni - compresi i ricorrenti !) ma ha strettamente collaborato con il ministero della Giustizia e il Consiglio di Stato (questa volta quale organo consultivo del Governo) prima del parere favorevole poi sottoposto anche alle commissioni parlamentari Giustizia.

Il risultato, naturalmente, non è un “elenco perfetto” e immodificabile, ma è un ottimo punto di partenza, che può essere modificato anche in futuro, come la stessa legge prevede, verificando sul campo funzionalità e difetti della disciplina, e tenendo conto dell’esperienza e dell’evoluzione dei bisogni e delle necessità indotte dalle innovazioni tecnologiche (dieci anni fa chi avrebbe pensato al diritto di internet e alla protezione dei dati personali come settori rilevantissimi e delicatissimi, che impegnano schiere di avvocati in ambito civile, penale e amministrativo?).

Serve cooperazione

Per questo ritengo che la leale cooperazione fra tutte le componenti forensi, anche al fine di concordare miglioramenti e aggiornamenti, otterrebbe risultati migliori per tutti. La via giurisdizionale, se accompagnata dalla sospensione del Regolamento prima della decisione sul merito del ricorso (come pure viene richiesto al Tar Lazio), può portare via anni, come i cinque che sono stati necessari dal regolamento del 2015 alle correzioni dello scorso dicembre.

Vorrei anche precisare che molti settori di specializzazione, come il diritto del lavoro e della previdenza sociale, già previsti nel 2015 e confermati ora senza che siano mai stati oggetto di impugnazione, hanno subito e potrebbero ancora subire del tutto incolpevolmente gli effetti paralizzanti dei ricorsi. Chi lo spiegherà, per limitarmi ai giuslavoristi, ai 650 giovani colleghi specializzati dalla nostra scuola di formazione, molti dei quali (quelli dei bienni più recenti, come prevede il regolamento) potrebbero ottenere il riconoscimento retroattivo, se solo l’attuazione del regolamento non fosse paralizzata?

Un’ultima considerazione, che può sembrare più di appartenenza, ma ha rilevanti effetti pratici.

La riforma forense del 2012 è frutto di un faticoso equilibrio fra diverse componenti coinvolte nella formazione dei giuristi (l’Università) e degli avvocati (il Cnf, gli ordini, le associazioni), sia nelle scuole e corsi di preparazione agli esami di abilitazione dei giovani laureati, sia in quelle orientate alla specializzazione. Con tutto il rispetto per l’università, il braccio di ferro tra le componenti dell’avvocatura rischia di annacquare un principio condiviso da tutta l’avvocatura e sempre affermato dai Congressi nazionali forensi: la specializzazione e le scuole di Alta formazione devono essere soprattutto forensi, cioè basate sull’esperienza e sull’esercizio della professione; non già esclusivamente accademiche, perché l’obiettivo prioritario delle università (pure giustamente coinvolte, come si è visto, in questo itinerario di specializzazione) deve restare quello di formare giuristi, non avvocati.

Per questo i giuslavoristi, oltre a resistere alle impugnazioni del Regolamento, continueranno ad impegnarsi affinché il Cnf e il ministero della Giustizia vogliano prontamente designare i componenti delle commissioni che dovranno definire le linee guida, riconoscere la “comprovata esperienza” e i titoli di specializzazione già conseguiti negli anni scorsi.

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