Dopo 46 giorni di guerra, Israele e Hamas sono arrivati a un accordo per la liberazione di una parte degli ostaggi. Il piano prevede il rilascio di almeno 50 tra donne e bambini in cambio di quattro giorni di cessate il fuoco.

In una dichiarazione ufficiale dell’ufficio del primo ministro si legge che «almeno 50 ostaggi saranno rilasciati nell'arco di quattro giorni, durante i quali ci sarà una tregua nei combattimenti. Il rilascio di ogni dieci rapiti aggiuntivi comporterà un ulteriore giorno di tregua». Hamas ha reso noto che «in cambio verranno liberati 150 donne e bambini palestinesi», tre ogni ostaggio israeliano restituito. Benjamin Netanyahu ha detto che l'accordo con Hamas è «una decisione difficile ma giusta». Lo scambio è stato mediato dal Qatar e sponsorizzato dagli Stati Uniti.

«Siamo davvero vicini a portare alcuni di loro a casa», ha detto nella serata di martedì il presidente Usa, Joe Biden. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha convocato martedì sera il gabinetto di guerra e quello di sicurezza, al termine dei quali si è radunato il governo, per approvare l’accordo. I partiti dell’estrema destra si sono opposti, ma la defezione non ha impedito di ottenere la maggioranza.

«È impossibile scegliere tra una donna e un’altra e un bambino e un altro, dovrebbero essere rilasciati tutti gli ostaggi», ha detto il ministro della Sicurezza, Ben Gvir, aggiungendo che con questo patto «si ridurranno le chance di liberare i rimanenti».

La voce degli ostaggi

Ai quartieri generali del forum per le famiglie degli ostaggi in centro a Tel Aviv, tra edifici di uffici e negozi, c’è una macchina organizzativa che arriva a contare fino a 400 volontari che si occupano di sostenere le famiglie dei rapiti del 7 ottobre.

Non partecipano ai negoziati per la loro liberazione, ma lavorano per il coinvolgimento delle opinioni pubbliche e dei paesi stranieri attraverso le loro ambasciate e per assistere sia le famiglie sia gli ostaggi come possono.

Oltre che sul lavoro di tutti questi volontari, contano su donazioni anche straniere e sull’uso a titolo gratuito degli uffici. Due uomini d’affari israeliani hanno lanciato questa iniziativa dopo che la figlia di uno di loro ha visto i miliziani di Hamas rapire sette amici al rave nel sud di Israele. Lei è riuscita a scappare e a mettersi in salvo.

La notizia che fosse imminente la liberazione di circa 50 ostaggi fra donne e bambini era iniziata a circolare con insistenza già lunedì. «Purtroppo riportare questi rumors è spesso controproducente per le trattative» dice Aviv Shiron, ex militare e ambasciatore israeliano, che è uno dei coordinatori del forum per le famiglie degli ostaggi. Peraltro, lunedì sera il gabinetto di guerra ha avuto per la prima volta un incontro con le famiglie.

Qui, il premier Nethanyahu ha detto loro che non si era mai stati così vicini alla liberazione di parte degli ostaggi come in quel momento, secondo Shiron. Il governo israeliano è stato più volte criticato dalle famiglie per non essersi impegnato a sufficienza per la liberazione degli ostaggi e per non essersi occupato neanche delle famiglie stesse. Shiron, ex militare e ambasciatore israeliano, si rammarica dello scarso sostegno da parte delle opinioni pubbliche estere e di organizzazioni, anche non governative, internazionali.

«Tra gli ostaggi ci sono molti bambini, anche molto piccoli e lunedì era la giornata dei diritti dell’infanzia. Perché l’Unicef o altre organizzazioni non hanno detto una parola sui bambini presi ostaggio?» dice, aggiungendo che neanche le organizzazioni per i diritti delle donne all’estero si sono mobilitate malgrado molti ostaggi siano donne, peraltro alcune anziane o malate.

Conflitto tra civiltà

Shiron, come il governo e la quasi totalità degli israeliani, ci tiene a sottolineare che questo conflitto non è un’ennesima tappa del conflitto israelo-palestinese, ma uno scontro di civiltà al quale l’occidente dovrebbe sentirsi partecipe. Ma una buona parte dell’opinione pubblica occidentale considera l’attacco di Hamas il risultato delle politiche israeliane ritenute oppressive nei confronti del popolo palestinese.

«Abbiamo fatto sicuramente degli errori, ma qui siamo un avamposto di democrazia in medio oriente. Dopo ci siete voi, è un conflitto che vi riguarda perché è contro i valori che voi condividete con noi», dice Shiron. La sensazione di una mancanza di solidarietà per l’attacco subito è condivisa da molti israeliani.

Tania Coen-Uzzielli, direttrice italo-israeliana del museo di arte moderna di Tel Aviv, racconta che ha sperimentato una grande mancanza di empatia per la tragedia collettiva del popolo israeliano. «Ho ricevuto una marea di chiamate per sapere se io e la mia famiglia stavamo bene. Però ci stiamo sentendo isolati da parte della comunità artistica, da parte dei nostri partner usuali. Non capiamo, sembrano non condividere i nostri stessi valori».

Mira Lapidot, curatrice presso lo stesso museo, dice che parte della sorpresa è dovuta al fatto che non si aspettavano che si prendesse necessariamente la parte di Israele ma almeno che si riconoscesse che si sta parlando di una questione molto complessa.

Facendo riferimento all’accusa fatta ad Israele di aver ridotto Gaza a un carcere a cielo aperto, Lapidot dice: «Non sarebbe orribile lo stesso che il peggior e più crudele carceriere fosse trattato dai prigionieri come sono state trattate le persone il 7 ottobre?».

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