Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.


Bruno Contrada, il superpoliziotto, per Franco Di Carlo non è che l’ingranaggio di un sistema nel quale mafia e antimafia hanno convissuto.

Contrada è rimasto per una vita intera a Palermo. Era arrivato quando regnava la tregua e a quel modello si è rifatto.

Il boss Saro Riccobono da latitante viveva nella sua casa, non lo cercava nessuno. Il maresciallo che avrebbe dovuto segnalarne la presenza aveva fatto interessare Nino Salvo per evitare di essere trasferito. Non deve fare impressione, le cose a quel tempo funzionavano così.

Dopo la guerra, il 50 per cento dei sindaci erano Cosa Nostra e la Sicilia per lungo tempo ha funzionato così. Cosa Nostra non era quella che sparava e ammazzava, era un sistema di potere nel quale chiunque avesse ambizione e nessuno scrupolo voleva entrare, in pochi non volevano averci veramente a che fare.

Niente di strano allora che Contrada potesse andare a trovare Riccobono a casa mentre questi era latitante. Io l’ho visto con i miei occhi, e del resto anch’io ero latitante. A Palermo si dice che se vuoi campare molti amici ti devi fare e a quelli di Cosa Nostra non devi toccare. E Contrada si è fatto molti amici e per Cosa Nostra aveva un occhio di riguardo.

Lui, campano, si era perfettamente inserito nell’ambiente palermitano e aveva avuto un buon maestro nel vicequestore Purpi, originario delle Madonie, che da sottufficiale era diventato commissario e poi vicequestore. Purpi aveva il terrore di essere ucciso e per questo si era messo a disposizione di Stefano Bontate e di Mimmo Teresi. Teresi gli aveva dato un appartamento vicino via Lazio ed erano diventati vicini di casa.

Per lungo tempo, Purpi diresse il commissariato di via Libertà. Amava giocare a carte e spesso faceva una capatina da un suo amico, un certo Iuculano, che gestiva una pompa di benzina vicino al motel Agip e lì, tra una partita e l’altra, trascorreva i pomeriggi. Un giorno dovevano notificarmi il ritiro della patente ma io facevo di tutto per non farmi trovare, finché andai da Mimmo Teresi a dirgli che Purpi mi aveva fatto cercare. Mimmo mi disse che se ne sarebbe occupato e io non fui più disturbato.

Purpi era considerato ciò nonostante un duro. Negli anni Sessanta era il terrore di ladri e rapinatori, ma quando si trattava di persone che potevano essere di Cosa Nostra diventava un agnellino. Contrada aveva seguito le sue orme, facendo amicizia sia con Bontate che con i Buffa di Resuttana. Frequentava il centro estetica che Pino Buffa, sottocapo di Resuttana, aveva con suo cognato Matteo Tusa in una traversa di via Ausonia. E proprio tramite Buffa aveva poi conosciuto Saro Riccobono che era il capo di quel mandamento.

Negli anni Settanta, Contrada aveva visto cadere tanti suoi amici e colleghi e capiva che solo legandosi a personaggi di Cosa Nostra poteva sopravvivere a Palermo. Molte di quelle azioni erano opera di Riccobono che anche per questo si era meritato l’epiteto di “terrorista”.

La carriera di Contrada è stata costruita stando ben attento a non correre pericoli seri: qualche rapporto di polizia cui seguiva l’informazione a chi di dovere di tenersi alla macchia per un po’. Fece così anche per il rapporto che porterà al cosiddetto processo Spatola. Tra i destinatari del provvedimento c’era Giovanni Bontate, il fratello di Stefano, ma lui si premurò di far sapere che il rapporto “era vuoto” e non c’era da preoccuparsi.

Contrada andò da Saro Riccobono anche dopo la morte del generale Dalla Chiesa, chiedendo rassicurazioni sull’incolumità di chi era chiamato a sostituirlo, il prefetto Emanuele De Francesco, nominato alto commissario antimafia. La sua nomina non ha impensierito per nulla Cosa Nostra, perché De Francesco era già stato in Sicilia e si sapeva che, ove fosse necessario, utilizzando il canale dei Salvo, si sarebbe potuto trovare qualcuno in grado di avvicinarlo.

Riccobono, però, non poteva sapere che era pronta una trappola anche per lui e mi aveva raccontato dell’incontro con Contrada con l’aria di chi era sicuro del fatto suo. Ma nonostante le rassicurazioni, De Francesco – che non è mai stato sfiorato da sospetti – si trovò non poche difficoltà entrando presto in rotta di collisione con il giudice Chinnici nel cui ufficio era da poco arrivato anche Giovanni Falcone.

Durante la sua gestione fu De Francesco a chiamare al proprio fianco all’Alto commissariato Contrada, che aveva già conosciuto e con il quale aveva lavorato in precedenza. Ma Palermo in quegli anni era un inferno, la commissione presieduta da Riina sembrava il direttorio di una dittatura, con sentenze di morte a raffica. E De Francesco fece di tutto per tornarsene rapidamente a Roma dove tornò a dirigere esclusivamente il Sisde, portandosi dietro Contrada che del suo direttore sapeva parecchio.

Tuttavia Contrada, pur diventando il numero tre del Sisde, scelse sempre di occuparsi di Palermo perché qui aveva il suo passato e la sua carriera sarebbe finita se fossero venuti fuori i suoi ambigui comportamenti.

Prima di Mutolo a parlare di Contrada sono sia Buscetta che Marino Mannoia, e per il poliziotto diventa essenziale presidiare la città e tenere d’occhio quel gruppo investigativo, guidato da Falcone, che lo lasciava a debita distanza.

Ma il suo potere era comunque forte e all’interno della polizia molti funzionari erano del tutto assoggettati a lui e si uniformavano all’imperativo del quieto vivere. Ma quando è ormai chiaro che dentro Cosa Nostra comandano i Corleonesi sa anche che con loro deve fare i conti. Nulla avrebbe potuto essere realizzato anche dai Servizi a Palermo se Cosa Nostra non vi avesse partecipato.

Era impossibile piazzare una bomba nell’ambito di una loro strategia e non cercare un rapporto con l’organizzazione. Altrimenti il rischio sarebbe stato quello di scatenare una guerra. Questo spiega la ricerca spasmodica di contatti anche quando c’è da mettere fuori gioco Falcone e del resto nulla, né tanto meno, come dimostra ormai la storia, un colpo di Stato può essere immaginato senza l’assenso e la partecipazione degli uomini d’onore.

La caduta dei cugini Salvo, il loro arresto nel 1984, l’imputazione che costò a Ignazio la condanna che sarebbe arrivata anche per Nino, se non fosse morto prima, erano il segno che molte teste sarebbero rotolate: dopo aver bloccato Chinnici, in un agguato che sembra prefigurare quelli del 1992, i Salvo condividono con il maxiprocesso il destino di tanti uomini d’onore che facevano riferimento a loro per la soluzione dei propri problemi giudiziari. Insomma, come dicevano in Cosa Nostra, anche loro erano sotto scopa. Il loro avversario più irriducibile era Giovanni Falcone che sulle indagini di Chinnici aveva innestato i contributi dei collaboratori di giustizia.

L’omicidio Chinnici aveva rallentato di alcuni anni il declino dei Salvo, ma la manovra a tenaglia messa in atto da Falcone non gli avrebbe lasciato scampo. Era il segno che ormai la diga era crollata: non sarebbero stati travolti dalla piena giudiziaria solo picciotti e capimafia, ma la furia delle inchieste avrebbe spazzato via l’intera classe dirigente che quell’esercito aveva nutrito e foraggiato, alternativamente servendosene e facendosi usare in una normale dialettica di condivisione del medesimo spazio di potere.

Nello Stato, credetemi, c’era molta gente che aveva ancora più paura di quanta non ne avessero gli uomini d’onore. Falcone indagava per conto proprio, con un nucleo ristretto di fedelissimi, aveva estromesso tutti gli altri, non concedeva spazi, si fidava, e giustamente, pochissimo. C’erano uomini, come il generale Antonio Subranni, che avevano costruito la loro carriera all’ombra dei due poteri, quello di Cosa Nostra e quello della politica. Anche per uomini così sarebbe arrivato il tempo delle indagini e della scoperta di altre trattative, di altri accordi.

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