Noi stiamo qui a discutere di questo o di quello, l’avvelenamento dell’atmosfera, le iniziative dell’industria privata, il fallimento del pubblico potere, la distruzione urbanistica di una delle città più belle e famose del mondo, il mare che è diventato veleno, la gente che fa il bagno nella merda, lo sa eppure continua a farlo
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione
Si racconta che Gorgia, il più grande oratore dell’antichità sicula, forse ancora più facondo e sottile dello stesso Demostene, convenuto un giorno a Siracusa per pronunciare un’arringa dinnanzi al popolo, ad un certo momento cominciasse ad accusare incertezze, impercettibili balbuzie, e che tutto il suo corpo fosse scosso di tanto in tanto da soprassalti, e piccoli scatti e brividi, improvvisamente. Era un lunghissimo pomeriggio di giugno, c’era un tenue vento dal mare, e il sole (raccontano) era una palla rossa sospesa sull’acqua del porto grande.
D’un tratto il grande Gorgia si strappò la toga bianca di dosso e continuò a parlare a torso nudo, e la sua oratoria ritornò fluente ed impetuosa, emozionò e commosse il popolo. Un trionfo. Il fatto è che c’era scirocco, e lo scirocco siracusano diventa come un invisibile umore di colla che appiccica addosso i vestiti; se fate caso, molti siracusani hanno questo strano tic, ogni tanto allungano la testa e il collo come se volessero scollarsi la camicia di dosso.
Sarà perché le montagne sono lontane, o forse per quel grande porto di acque immobili come un lago, sarà perché tutta la calura della piana di Melilli scivola ogni sera pigramente verso Ortigia, ma lo scirocco siracusano è il più untuoso e corposo di tutti gli scirocchi siciliani che pur sono celebri persino nella letteratura mondiale: Goethe venne in Sicilia per riempirsi l’animo degli incantesimi ellenici e scrivere un poema, stette alcuni giorni a Messina e incocciò una settimana di scirocco, visse così inerte su una sedia fissando il mare dello stretto, gli si incollò tutto dentro, anche le idee, la fantasia.
Alla fine rifece il bagaglio e scomparve senza avere scritto un verso. Bene, vent’anni o trent’anni fa i siracusani, nei mesi della lunghissima estate, stavano la sera dinnanzi all’uscio di casa, o immobili su una sdraio al balcone, oppure a prendere il gelato ai tavoli della marina grande. Estenuati dallo scirocco parlavano poco, sospiravano, si salutavano educatamente, fiutavano l’aria che portava un sentore profondo di mare.
L’odore del mare a Siracusa non era eguale a nessun’altro. Era profondo, umido, c’era dentro gli umori degli scogli, la putrefazione dell’erba marina, il profumo dei muschi. In realtà, proprio per lo scirocco, non c’era una città nel Mediterraneo che odorasse sempre e così profondamente di mare come Siracusa. Ora cala la sera e, insieme al buio, si stende questo immenso lenzuolo di scirocco.
I siracusani vi stanno sotto con rassegnata malinconia e fiutano l’aria nella quale non c’è più alcun odore di mare. Un sentore invece di cantina, vinaccio in putrefazione, oppure quel sapore squallido e inconfondibile delle uova guaste. Sono miliardi di particelle chimiche infinitesimali che galleggiano nell’aria e si impastano con le microscopiche goccioline di scirocco, e stanno dolcemente in sospensione, fanno parte integrante dell’aria che si annusa, si respira.
Le componenti di questo inquinamento sono ossidi di zolfo e cloro, acido cloridrico, composti di fluoro e idrogeno solforato che provengono dalle centrali termiche, idrogeno solforato e sostanze organiche che si liberano dalle ciminiere delle raffinerie, ed ancora ossidi di azoto, ossidi di carbonio, polveri inerti.
Ognuna di queste sostanze chimiche diventa tossica allorché si supera una certa presenza nell’atmosfera. A volte non è nemmeno necessario che una di queste sostanze superi i limiti di pericolo, ma basta che essa si combini nell’atmosfera con altre componenti chimiche per moltiplicare la propria tossicità. E nemmeno esattamente si può stabilire quali siano i danni che ognuna di queste sostanze può provocare sull’organismo umano, sulle vie respiratorie, sulla pelle, sulla crescita, sulle cellule.
Siracusa è l’unica città del sud, da Firenze in giù, che abbia lo stesso drammatico problema di alcune grandi metropoli industriali, Londra, Tokio, Chicago, Milano, Essen, uno dei turbamenti scientifici della nostra epoca, attorno al quale si accaniscono ansiosamente studiosi, sociologi, scienziati, politici. La legge italiana affida alla pubblica amministrazione la difesa della salute collettiva, imponendole la installazione di tutti quegli strumenti e attrezzature utili o indispensabili per evitare l’inquinamento atmosferico o comunque per controllarne continuamente l’indice di pericolosità e le conseguenze in campo sanitario.
Sarebbero necessarie una serie di stazioni, talune fisse ed altre mobili, dotate ognuna di apparecchiature estremamente sofisticate, in modo da poter valutare senza interruzione le percentuali delle particelle chimiche nell’atmosfera, individuarle, stabilire la loro eventuale connessione e all’occorrenza stabilire con immediata certezza da quale zona e per quali cause proviene l’inquinamento, al fine di porvi immediato riparo.
Tutto il complesso viene a costare alcuni miliardi ed esige un personale di estrema specializzazione sia nel settore tecnico chimico, sia in quello sanitario. Le pubbliche amministrazioni di Siracusa non hanno quasi niente, cioè il laboratorio di igiene e profilassi che può semmai controllare l’indice delle malattie sociali e il loro incremento. E il naso dei siracusani per fiutare l’aria nei giorni di scirocco.
Per potere far fronte ai propri drammatici obblighi politici, sociali, sanitari e per nutrire concrete speranze sulla propria salute, il potere pubblico da una parte e centinaia di migliaia di esseri umani dall’altra, debbono paradossalmente affidarsi proprio alle industrie, cioè agli agenti di inquinamento dell’atmosfera.
Si chiama CIPA, consorzio industriale per la difesa dell’ambiente, l’organismo che deve garantire giorno per giorno il controllo dell’avvelenamento atmosferico lungo tutta la costa siracusana: da esso dipende la difesa dell’intera popolazione da malattie oscure e talvolta ancora indecifrabili alla stessa scienza. Da esso in definitiva dipende anche la lunghezza della vita dei siracusani.
Composto dalla associazione degli industriali con il concorso della ESSO italiana, della Liquichimica e dalla Montedison, questo consorzio rimane comunque un organismo di gestione privata che non ha alcuna responsabilità e del quale il Potere pubblico deve ciecamente fidarsi senza alcuna possibilità di controllo.
È un po’ la situazione politico militare della NATO dentro la quale solo gli americani possiedono le armi nucleari più sofisticate e ne hanno il controllo assoluto, e gli europei debbono stare dunque sulla fiducia che, per una concatenazione fatale di eventi, magari per la semplice pazzia di un gruppo di militari, o addirittura per il crack di un cervello elettronico, non si cominci a scaraventare qualche ordigno qua e là sulla terra, provocando una catastrofica ritorsione sul vecchio continente.
Il CIPE controlla l’inquinamento atmosferico su un’area di quasi centocinquanta chilometri quadrati che può apparire teoricamente immensa, ma in realtà è un territorio che si estende per venti chilometri di costa e meno di dieci chilometri verso l’entroterra.
Al centro, come un enorme ragno, che esala fiati e fuochi, stanno le gigantesche fabbriche, una delle più alte concentrazioni chimico industriali di tutta Europa. Uno accanto all’altro, in un allucinante groviglio di edifici metallici, tubi, ciminiere, depositi, fiamme, fumi, vapori, in cui non si riesce a discernere esattamente il confine fra i vari impianti, sono cinque colossi industriali, la Liquichimica, del gruppo Ursini che produce una gamma di prodotti dai detergenti ai mangimi ai farmaceutici, la Esso per la raffinazione e la produzione di combustibili e lubrificanti; le cementerie UNICEM del gruppo IFI Agnelli; la Montedison che incorpora l’ex Sincat, la Celene, l’Augusta petrolchimica e la Montecatini e produce una infinità di prodotti, dalla plastica ai fertilizzanti, ed infine l’ISABN del gruppo ENI, specializzata in benzine e combustibili speciali.
Attorno a questo nucleo imponente, che non ha forse riscontro in alcuna altra zona industriale italiana, si schierano, talvolta letteralmente si infiltrano, sfruttando ogni metro quadrato di spazio, una serie di altre industrie medie, la Cogema che lavora il tufo dalle cave dell’interno e l’acqua di mare producendo sali di magnesio, la SOTIS cavi della Pirelli specilizzata in cavi per elettricità, la cementeria SACS che è una delle più vecchie industrie della zona, la SAVAF che produce materie plastiche, l’ETERNIT per la produzione in serie di manufatti di cemento, tegolame, pareti, contenitori, la SIRE specializzata in resine espanse, prodotti in gommapiuma.
E, in mezzo a questi stabilimenti che si allungano come tentacoli in ogni direzione lungo l’arco del golfo, una miriade di altre imprese industriali più piccole che sfruttano i prodotti della chimica, delle cementerie, della plastica, che costruiscono tutto quello che serve alle industrie maggiori, sia nel settore metalmeccanico, sia in quello edilizio o elettrico, ed ancora industrie di servizio per la manutenzione, la verniciatura, i trasporti, gli impianti elettrici, le coibentazioni e le perforazioni, gli impianti idrici. Decine di migliaia di persone, dirigenti, tecnici, impiegati, operai specializzati, manovali, muratori, falegnami, metalmeccanici, camionisti lavorano all’interno di questa gigantesca concentrazione industriale.
Sono centinaia di miliardi di stipendi e salari che vengono continuamente immessi nella economia del siracusano e provocano una serie di altre attività, artigianali, commerciali, professionali, edilizie, una moltitudine di individui che nel fenomeno industriale hanno certamente trovato un’alta ricompensa economica e una realizzazione civile della propria vita, ma sono costretti a vivere dentro i confini allucinanti di questa metropoli di fumo, di gas, di fuochi. di fetori, di esalazioni, che costituiscono il respiro fatale del mostro, i suoi umori maligni, le sue feci.
Giorno e notte, a ciclo continuo, 24 ore su 24 ore. Un incubo, il prezzo che ogni territorio industriale paga al suo stesso benessere. Per tenere sotto controllo questo avvelenamento costante e invisibile, che potrebbe avere conseguenze atroci non soltanto sulla salute, sulla lunghezza della vita, ma addirittura sulla genetica, cioè sul destino fisiologico di coloro che ancora debbono nascere, il CIPE ha creato una struttura tecnica e scientifica che onestamente va giudicata all’avanguardia nel settore, con un sistema di altissima sofisticazione tecnologica.
Il punto di partenza di tutta la struttura è costituito da un dato scientifico che la stessa organizzazione mondiale della Sanità ha ritenuto assolutamente certo: è cioè la percentuale di anidride solforosa nell’atmosfera a fornire l’indice esatto dell’inquinamento.
Partendo da questa certezza scientifica è stato allestito un laboratorio mobile che, per un anno, si è spostato ininterrottamente da un punto all’altro del territorio inquinato, effettuando centinaia di esperimenti e localizzando infine le zone costanti di maggiore concentrazione dell’anidride solforosa, in altre parole i punti essenziali dove, di volta in volta, si venivano a determinare le più alte concentrazioni tossiche, in altre parole le zone precise del territorio dove l’inquinamento poteva essere avvistato prima ancora che il fenomeno si estendesse ad altri spazi e fosse oramai irreversibile.
Fate conto dei vecchi torrioni di pietra di cui è disseminata la costa siciliana, costruiti su piccole alture a strapiombo sulla costa, e che giorno e notte potevano controllare il mare in modo da avvistare tempestivamente le imbarcazioni dei pirati saraceni e dare l’allarme. Le popolazioni delle campagne correvano a rifugiarsi entro le mura fortificate del castello e gli armati venivano radunati col suono delle campane perché potessero fronteggiare l’assalto. E ben singolare il destino di queste popolazioni della costa orientale: i fenici, i greci, i cartaginesi. i romani, poi gli arabi, i saraceni, i normanni, i francesi, gli spagnoli, gli svevi.
Ora gli invisibili veleni di ogni nazionalità. I punti più delicati, anzi più sensibili, vennero individuati in venticinque zone dell’intero territorio e qui vennero costruite altrettante stazioni fisse di rilevamento dotate di analizzatori continui dell’atmosfera, più tre analizzatori della polvere e quattro stazioni metereologiche che contemporaneamente permettono di stabilire le variazioni dell’inquinamento atmosferico in rapporto alle condizioni climatiche, alle stagioni ed alle variazioni di temperatura.
Da queste venticinque stazioni, ogni sessanta secondi viene inviato, via radio, il dato di accertamento ad un centro di raccolta che è in sostanza un cervello elettronico il quale memorizza le situazioni, elabora e fissa le medie ogni mezz’ora, e fa il punto ogni 24 ore. Tale dato conclusivo viene schedato elettronicamente con tutte le rilevazioni del giorno, cioè l’attività industriale, la percentuale di inquinamento, le condizioni del tempo, la presenza di nebbia, pioggia, vento.
Accanto al cervello elettronico esiste un grande pannello che riproduce l’intero territorio sotto controllo, con le indicazioni luminose delle stazioni di rilevamento e la possibilità di individuare immediatamente, con segnalazioni luminose ed acustiche, quali stazioni abbiano avvistato situazioni di emergenza e allarme. Tutta la struttura è concepita in modo da funzionare automaticamente e fornire non solo la conoscenza immediata e costante della situazione, ma di individuare nello spazio di pochi minuti la disposizione spaziale dei fenomeni e le cause. Cioè da quale impianto della zona industriale si è scatenato improvvisamente il pericolo.
Teoricamente la struttura è così sofisticata e perfetta da poter individuare il rischio di un avvelenamento pericoloso dell’atmosfera prima ancora che esso si verifichi. Naturalmente, perché questo funzionamento possa essere perfetto è necessario che il cervello elettronico, come del resto qualsiasi cervello umano si formi la sua esperienza. vale a dire si costituisca una sua memoria di dati, informazioni. situazioni. pericoli raccolti per mesi e per anni, analizzati, confrontati e quindi trasformati in un dato logico.
Per ora questa struttura elettronica ha ancora un cervello bambino che va affannosamente scrutando da tutte le parti per imparare a capire perfettamente. Oltretutto è un cervello perfetto. con la memoria di un Pico della Mirandola, l’intelligenza fulminea di un Leonardo, la capacità matematica di un Einstein, ma che è nato dentro un corpo immenso già esistente da vent’anni, e da vent’anni malato coperto di pustole, con gli arti deformi, i polmoni intossicati, il naso otturato, un fiato schifoso, corroso qua e là da piccoli cancri. abituato per istinto quàsi da bestia a produrre gli escrementi quando voleva ed a lasciarli dove gli faceva comodo. nel mare., nell’aria, sulla terra.
Dentro questo corpo deforme che talvolta sembra una specie di immenso tumore nel quale le cellule si sono moltiplicate per delirio, senza alcun ordine fisiologico, vivono e lavorano decine di migliaia di esseri umani ed altre centomila almeno vivono ai margini di questo cancro che ogni tanto allarga su di loro la sua invisibile ombra maligna.
L’unico strumento, forse non infallibile, ma certo il più moderno che la scienza abbia saputo elaborare. appartiene a coloro che hanno costruito prima e necessariamente gestiscono questo tumore. ed ora disperatamente cercano di curarne dolori. contagi e malefizi. Il potere pubblico in realtà non ha fatto niente.
Niente ora che il dramma si è posto nei suoi termini implacabili: niente quando si trattava di capire la realtà del nascente fenomeno industriale e invece di ammucchiarsi tutti insieme (le mani protese, per cercare di afferrare ognuno la sua parte di denaro, stipendio, contributo, occupazione, guadagno, l’appartamento di sei stanze, la villa al mare di Fontane Bianche, l’emporio per vendere quanta più merce) si doveva cercare di capire quello che stava per accadere.
Non la devastazione del panorama, che sono baggianate retoriche. uno scherno addirittura per chi non lavora ed ha la pancia vuota, ma la distruzione dell’ambiente umano e dell’habitat naturale, la decimazione dei pesci, l’avvelenamento delle acque, la incontentabile ferocia edilizia, la speculazione urbanistica, lo sconvolgimento di tutti i rapporti sociali, la distruzione della terra, l’intossicazione dell’area, l’angoscia per la salute umana.
Tutto invece avvenne semplicemente secondo la spietata logica industriale che conosce solo la legge del reddito e dei bilanci e non ha nemmeno tempo per valutare l’insopprimibile esigenza dell’uomo a vivere. Ma anche l’uomo sembra avere qui smarrito la esatta dimensione di quella che può o dovrebbe essere la vita. Abbandonata la fragilità di Ortigia è andato ad imprigionarsi in un laido groviglio di cemento a nord dell’isola.
E quest’uomo siracusano che viveva sul mare, quasi con il mare, con questa presenza magica e continua, i suoi odori profondi, il suo colore che cangiava da una costa all’altra, la sua luce che si innalzava fino alle facciate gialle delle passeggiate, ora ha perduto anche questo.
Da tutte le coste del siracusano gronda liquame schifoso, gli orribili quartieri nuovi accatastati sul pianoro hanno una fognatura allacciata a quella vecchissima del manicomio e dell’ospedale, un’altra vecchia fognatura scarica sulla costa di via Arsenale, da ogni tratto della sua riva. Siracusa trasuda sterco, fino alle spiagge famose del sud, a loro volta schiacciate da un’infame proliferazione di cemento.
Nei mesi di aprile maggio e giugno, quando la stagione balneare non è ancora iniziata, tutto il mare che va dalla minuscola insenatura di Ognina lino a Fontane Bianche ed alle spiagge di Avola, è ancora pulito e balneabile. Le ville sono deserte. I pozzi neri sono vuoti. Le rilevazioni eseguite per legge dagli uffici sanitari del comune ne danno certezza.
Poi a mano a mano che l’estate avanza, la riviera si popola, decine di migliaia di persone s’intasano lungo la costa, i pozzi neri si gonfiano di rifiuti, il tasso di inquinamento marino aumenta via via paurosamente, finché a luglio diventa insopportabile. Superato fatalmente il limite massimo di mille colibatteri a litro d’acqua, scatta il divieto di balneazione che però è previsto a conclusione di ben cinque prelievi.
L’ufficio sanitario informa il sindaco, il quale emette l’ordinanza portandola a conoscenza della capitaneria e della questura, le quali a loro volta debbono stilare le rispettive ordinanze, farle stampare in manifesti, fare affiggere i cartelli, infine fare rispettare la norma. Nel frattempo l’estate è finita, la gente ha continuato per due mesi a fare i bagni in quell’acqua così incantata che probabilmente anche lo sterco di diecimila persone al giorno riesce a camuffare i suoi micidiali batteri in trasparente plancton marino.
Di tutte queste cose abbiamo discusso con il professore Mirone, ufficiale sanitario della città. Persona estremamente gentile, parla sommessamente ma con grande concitazione, dice cose estremamente serie o drammatiche e tuttavia sembra che in tutto il suo discorso ci sia una impercettibile ironia come se volesse dirmi: caro amico, noi stiamo qui a discutere di questo o di quello, l’avvelenamento dell’atmosfera, le iniziative dell’industria privata, il fallimento del pubblico potere, la distruzione urbanistica di una delle città più belle e famose del mondo, il mare che è diventato veleno, la gente che fa il bagno nella merda, lo sa eppure continua a farlo, e stiamo parlando garbatamente di tutte queste belle cose con la faccia di chi è drammaticamente convinto di partecipare ad una grande battaglia civile.
«Balle, amico mio, stiamo recitando l’uno di fronte all’altro, ognuno la sua parte, lei il giornalista, io il medico sociale, e ci misuriamo e scrutiamo a vicenda, e facciamo gesti, e vibriamo di emozione… guardi. guardi come vibrano di emozione le mie mani indicando su questa grande mappa murale le coste di questa città, inquinate da veleni o da sterco, dalla punta di Augusta fin quasi al confine con Avola! Osservi che nobile espressione di indignazione sul mio volto! Non si congratula con me…? lo le faccio i miei complimenti per le sue domande così pertinenti, così vibranti di autentica coscienza civile! Bravo, bene, bis… Amico mio, noi stiamo qui a discutere, ma non può cambiare quasi niente».
Uscii dall’ufficio, nel vecchio vicolo della via Gargallo e mi trovai dinnanzi alla facciata scura del mio vecchio liceo. E mi parve comparire una piccola ombra ridente che oltrepassava il portone chiuso e scompariva, il minuscolo, delizioso professore Tiralongo, sempre ridente, con una grande cravatta a farfalla, professore di chimica. Dinanzi alla nostra ignoranza diceva: «Questa è la patria di tiranni, demagoghi, filosofi e poeti. Giustamente, della chimica, che vi fotte…?»
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