Il cielo sopra il tennis sembra essersi fermato e oggi, domenica 11 ottobre, in una Parigi ottenebrata dalle nuvole e dalla deuxième vague di covid-19, Rafa Nadal e Novak Djokovic si contenderanno l’ennesimo grande trofeo della loro preistorica rivalità. Ancora loro. Il primo con 19 Slam già in tasca - 12 dei quali vinti su questo stesso campo, un record che trascende le epoche - e l’altro a quota 17, e un’aura di imbattibilità che ha scassinato il duopolio più forte di sempre, quello instaurato da Nadal e Federer. Gira e rigira, sono sempre loro: due generazioni di campioni hanno avuto il tempo di invecchiare e pensionarsi, nella vana attesa che i tre despoti si stancassero di fare razzia di titoli; pure la cosiddetta NextGen, la futura generazione di fenomeni (Tsitsipas, Medvedev, Zverev) per ora prosegue ad accomodarsi in panchina guardandosi le punte delle scarpe, mentre quegli altri paiono non volersi rassegnare all’appagamento, o al tempo che scorre.

Una storia nuova

Ma una novità c’è. Comunque vada a finire, e chiunque tra Roger, Rafa e Novak terminerà la carriera col bottino più grasso la sua collezione di Slam e gli annessi dibattiti sul più forte tennista della storia, questo Roland Garros ci ha portato in dono il germe di una storia nuova, dalla prospettiva dirompente. E una volta tanto non arriva da Grecia, Serbia, Svizzera o da un’isoletta spagnola.

Il protagonista si chiama Jannik Sinner ed è un nome che tutti gli italiani si abitueranno presto a sentire e leggere, e poi a inserire nel proprio vocabolario di cultura sportiva di base. Come Tomba, come Rossi; come era stato Panatta, il più forte tennista italiano di sempre, grazie al magico 1976 e il tris Roma-Parigi-Coppa Davis.

Jannik Sinner (AP Photo/Michel Euler)

Avere 19 anni

La solita esagerazione sensazionalistica? No. Non questa volta. A diciannove anni, e senza mai aver giocato un punto nello Slam francese, Sinner si è arrampicato fino ai quarti di finale. Ha spazzato via dal campo Alex Zverev, portandolo a scuola di tennis.

E non era, quell’altro, un brocco: numero 7 del mondo, ha già vinto un Master, il torneo di fine anno dedicato ai primi otto in classifica mondiale. Dopodiché Jannik, cui nessuno chiedeva nulla se non una difesa onorevole, è andato vicino al vincere un set, e pure un altro, a sua maestà Nadal, esplodendo colpi vincenti con una naturalezza sconcertante, propria della ristrettissima cerchia dei fuoriclasse.

La sua storia

Jannik Sinner, classe 2001, fino a due anni fa non aveva neanche una classifica mondiale. Zero. Da lunedì, sarà il 48esimo tennista del pianeta. E sembra uscito dalla più improbabile delle vicende. Papà Hans Peter e mamma Siglinde impiegati tra il personale di un albergo della val Fiscalina, in mezzo alla neve e agli impianti di risalita, la passione per gli sci; e poi sì, il tennis, ma due o tre volte a settimana.

Così, perché gli piaceva, vicino a casa c’era un maestro bravo, Heribert Mayr. E poi, a differenza dello slalom, «era un gioco. E non fa paura: nel tennis, al massimo, sei teso. Nello sci, ti butti giù dalle montagne». Sinner e la racchetta: perché no? In fondo, Alberto Tomba non era nato a Caldaro ma in Emilia, ad anni luce dai paletti, non parlava sudtirolese ma bolognese.

(Foto: AP)

Il coach

La sliding door che probabilmente ci regalerà gioie dimenticate dai tempi della “veronica” e dei cori “A-dri-a-no!” agli Internazionali d’Italia è un episodio marginale che coinvolge il giovin Sinner e Riccardo Piatti, il coach italiano più titolato di sempre.

Sotto le sue mani, da eccellente meccanico del tennis, sono passati campioni come Djokovic, l’ex numero 3 del mondo Milos Raonic, la reginetta Maria Sharapova. Piatti è il professionista bastian contrario che prese un ragazzino sfollato dalla guerra dei Balcani, Ivan Ljubicic, e lo portò tra i primi del mondo.

È stato l’inventore dei team privati nel tennis italiano: lasciò un posto fisso in federazione per creare i Piatti Boys, ragazzi scartati dalla scuola nazionale e in cui lui credeva. A ragione: Renzo Furlan arrivò alla 19esima posizione in classifica mondiale, Cristiano Caratti alla 26esima e nessuno, a parte lui, ci avrebbe scommesso una cicca.

Colpo di fulmine

A 62 anni e con una bella accademia che porta il suo nome, appoggiata due curve dietro il lungomare di Bordighera, Piatti si sarebbe anche potuto accontentare.

Ma il giorno in cui Max Sartori, suo allievo e allenatore storico di Andreas Seppi, gli portò in visione un ragazzino di Sesto Pusteria, secco, silenzioso, una cascata di ricci rossi e una racchetta più grande di lui, successe qualcosa di strano.

Piatti è come un cantautore di successo cui i ragazzi mandano, a ciclo continuo, i loro brani demo, sperando di essere notati. Non passa settimana senza che gli giungano segnalazioni, dritte, indiscrezioni e raccomandazioni: questo bambino è forte, guarda come gioca quell’altro, ti giro il filmato di Tizio che si allena in Belzebuistan e che somiglia ad Agassi. Ormai ci ha fatto l’occhio. Quasi sempre, sono gli sguardi sognanti di genitori e di coach che vedono quello che non c’è. Eppure, quel giorno, non appena osservò palleggiare per dieci minuti quel tredicenne senza identità, in mezzo ai tanti, si girò di colpo verso Sartori e gli disse: «Questo come hai detto che si chiama? E soprattutto, come faccio ad adottarlo?»

Speciale

Questo era Jannik Sinner. «Rimasi fulminato», racconta, «perché colpiva la palla diversamente dagli altri. Mi ricordai che, qualche mese prima, lo avevo visto di sfuggita alla Coppa Lambertenghi, il trofeo nazionale under 12, ed era proprio lui: mi era rimasto in mente perché, a differenza dei suoi coetanei che giocavano quasi esclusivamente in difesa alzando pallonetti, lui andava sempre a rete. Oppure accelerava e cercava il colpo vincente. Era speciale».

E pazienza se perdeva: da ragazzini, nel tennis, la difesa a oltranza premia. Nel gioco dei grandi, invece, se provi a vivere di pallonetti puoi cercarti alla svelta un altro mestiere. «Mi si era aperto il cuore. Avevo visto ciò che non mi capitava da anni, anzi, forse da sempre».

(AP Photo/Christophe Ena)

Sognare uno Slam

Piatti ha ottenuto quasi tutto, dal mestiere cui ha donato la vita: portare tennisti nei primi cento, nei primi dieci, vederne uno – Milos Raonic – disputare una finale a Wimbledon.

Gli manca il successo nello Slam e il numero uno del mondo e il ragazzo del destino sembra essere sceso da lassù per assecondarlo: «Jannik, per me, è il riassunto di tutte le mie esperienze precedenti. Non voglio che passiamo per sbruffoni, se parliamo di vetta del ranking e di Slam, ma il progetto è quello».

Dovevo vincere

Trapiantare Sinner dalle Dolomiti al litorale ligure fu un’operazione delicata ma, tutto sommato, non disagevole. A tredici anni, Jannik sapeva già cosa voleva «e fu lui a dire ai genitori che intendeva trasferirsi a Bordighera per allenarsi con me».

Tra Piatti e Sinner è nata un’intesa tra simili: se il maestro comasco non si cura di ammettere di essere un mono-pensiero, uno che vive, pensa e respira tennis da quarant’anni in via esclusiva, la stessa mentalità totalizzante e vincente si è radicata in Sinner.

Non si spiega altrimenti il suo esordio in un grande torneo, agli Us Open 2019: perde una partita lottata contro un campione di mestiere come Stan Wawrinka e, invece di cullarsi nella soddisfazione di aver tenuto testa a un grande nella sua prima uscita in uno Slam, imbocca gli spogliatoi nero di rabbia: «Oggi dovevo vincere». Come se avesse sempre giocato partite così.

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Tennis che conta

Con un mobilità stupefacente e la violenza dei colpi da fondocampo che ha impressionato anche Rafa Nadal, uno abituato a legare i suoi avversari come salami e sfinirli di parabole arrotate, Sinner ha tagliato corto con i tornei giovanili e ha assaggiato il tennis che conta, seguendo la ricetta Piatti. Ha funzionato.

Quest’anno ha preso a pallate David Goffin, un signor giocatore spesso in zona top ten: prima del lockdown a Rotterdam e ancora qui, a Parigi, al primo turno, facendolo passare per un pivello. Tutto normale.

Un fenomeno italiano

Difficile scucire a Jannik qualche concetto che si discosti dall’ovvio ma la sua consapevolezza non teme di essere confusa con la spocchia. Pensa di non avere limiti, riconosce in sé un talento raro che, per la legge dei grandi numeri, è piovuto proprio qui, in mezzo agli orfani di Pietrangeli e Panatta. Pericolosamente vicino alla frontiera ma, vivaddio, finalmente al di qua dei confini.

Tanto che il colosso Nike lo ha rincorso e corteggiato, offrendo una cifra con tanti zeri messi in fila per assicurarsi di poterlo vestire col logo del baffo. E stavolta no, non siamo noi italiani che, con orgoglio, mettiamo addosso i completini firmati al genio ribelle di John McEnroe. Sono loro a bussare a casa nostra perché, il fenomeno, Sinner, ce l’abbiamo noi. Ed è appena sbocciato.

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