Nazional popolare. Prima di Pippo Baudo la definizione non esisteva. Una sera in tv la subì. Non gli piacque. Era stata usata con una sfumatura di perfidia da Enrico Manca, presidente della Rai nell'anno 1987. Aveva detto che Super Pippo faceva un programma di quel genere là, anzi, lo invitava a non prenderlo per un complimento.

I socialisti a quel tempo erano furiosi perché Beppe Grillo aveva appena fatto quel suo famoso numero che gli sarebbe costato l'esilio dalla Rai. La sera dell'ultima puntata di quel Fantastico, Baudo si tolse il sassolino dalla scarpa. «Vuol dire che d’ora in poi farò programmi regionali e impopolari» mandò a dire al presidente.

Non ci riuscì, continuò a farne allo stesso modo, imponendo una televisione che mescolava l'alto e il basso. Se la Rai degli anni Cinquanta e Sessanta aveva finito per “fare l'Italia” dandole una lingua unica, Pippo Baudo con la sua Domenica In, i suoi Fantastico, i suoi Festival di Sanremo allora ha fatto gli italiani. Ci ha costruiti un pezzetto per volta, seminando la qualità nell'intrattenimento e l'intrattenimento nella cultura, facendosi sacerdote domenicale in un salotto dentro il quale potevano sfilare in una stessa puntata un politico come Giulio Andreotti e un comico come Pippo Franco, uno scrittore come Alberto Bevilacqua e un attore come Massimo Troisi.

I rivali

Contro le domeniche di Baudo, chi voleva fare concorrenza dovette puntare a costruire il racconto di un'altra Italia, un paese disincantato quanto quello di Baudo era ammaliato, una tv eretica quanto l'altra era rassicurante, informale quanto la sua era elegante. Le altre domeniche furono quelle di Renzo Arbore, Gianni Minà, Andrea Barbato. Nascevano per contrastare il baudismo, in realtà lo amplificavano.

Non c'è stato imitatore che non si sia cimentato con Baudo. Gigi Sabani avrebbe toccato l'eccellenza con il tormentone «l'ho inventato io». Ma come nel caso di Manca, aveva ragione nella sua finzione. Davvero Baudo ha inventato una galleria di protagonisti dello spettacolo italiano: Beppe Grillo, Heather Parisi, Lorella Cuccarini. Ha battezzato l'epifania di Laura Pausini, Andrea Bocelli, Giorgia. Poteva farlo perché dentro quell'uomo così apparentemente ingessato, c'era una sensibilità scapigliata. In gioventù era stato attore nella sua Catania, musicista (compositore di Donna Rosa), solo alla fine presentatore. Il divo dei presentatori. Se Minà è stato i pullover che indossava, se la personalità di Arbore è nei suoi gilet, Baudo è stato il perfetto padrone di casa in giacca e cravatta, ma sempre dando la sensazione che sotto la camicia ci fosse altro: una spalla per il Benigni sfrenato, un improbabile amante per Sharon Stone, un salvatore per quell'operaio che in tv a Sanremo minacciò il suicidio.

Ha giocato a fare il rivale di Mike Bongiorno. È finito in una canzone degli Squallor («A chi vuoi più bene, a mamma o a papà? A Pippo Baudo»), ha rischiato di passare alla storia come il conduttore che aveva buttato Louis Armstrong fuori dal palco del festival. È stato tra i primi a uscire dalla Rai per andare da Berlusconi e il primissimo a capire di aver fatto una sciocchezza, perché non tutti i canali sono uguali. Il baudismo è stata una categoria dello spirito. Ma quando gli hanno chiesto cosa si sentisse per gli italiani, rispose: «Un soprammobile. Faccio parte dell'arredo di famiglia». Uno di quei gingilli che non sai, se più nazionale o più popolare.

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