«È difficile fare previsioni, soprattutto per il futuro», ha scritto Niels Bohr, Nobel per la fisica nel 1922. Eppure, non possiamo non farle. Consapevole dei limiti delle nostre capacità di anticipare accadimenti che avranno luogo tra molti decenni, l’IPCC, Il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico non fa previsioni ma descrive “scenari” ossia possibili futuri senza associare a essi una probabilità di accadimento.

Si parte da quelli economico/sociali per passare a quelli relativi alle emissioni e, infine, a quelli che descrivono la concentrazione di gas serra in atmosfera. A ognuno di essi è abbinato un codice che rappresenta l’entità dell’effetto di riscaldamento dell’atmosfera previsto per l’anno 2100: si va dal più blando (RCP2.6) a quello più estremo (RCP8.5).

Molto spesso lo scenario RCP8.5 viene descritto come una rappresentazione del cosiddetto business as usual ossia quello che descrive quanto succederà in futuro qualora non vengano modificate le politiche oggi in vigore; l’RCP2.6 è invece presentato come il risultato atteso grazie alle politiche di mitigazione.

Un articolo pubblicato sulla rivista Environmental Research Letters pone a confronto dati passati e stime per il futuro delle emissioni di CO2 elaborate dall’Agenzia Internazionale dell’Energia con quelle sulle quali si fondano i sopra citati scenari.

Tra il 2005 e il 2017 la tendenza registrata si attesta poco al di sopra dello scenario più conservativo preconizzato dall’IPCC. All’orizzonte del 2040 la stessa agenzia ipotizza che, in base alle politiche in vigore, le emissioni si attesteranno su un valore superiore di circa il 10 per cento rispetto a tale scenario: si avrebbe quindi un aumento di circa il 50 per cento rispetto al 2005 a fronte di un raddoppio nello scenario RCP8.5.

Il divario registrato finora è dovuto principalmente a due fattori: un eccesso di ottimismo nelle previsioni di crescita economica e, al contrario, assunzioni troppo pessimistiche relative alla riduzione della intensità carbonica (CO2 emessa per unità di energia prodotta). L’optimism bias delle previsioni di crescita è risaputo e, inoltre, le più recenti stime demografiche sembrano rivedere significativamente al ribasso le passate proiezioni dell’Onu. Del tutto irrealistiche appaiono anche le previsioni sull’uso del carbone pro capite di cui si prospetta una crescita fino a sei volte rispetto al 2018.

Gli elementi sopra indicati dovrebbero portare a concludere che lo scenario RCP8.5 non può più essere presentato come il business as usual e che la prevedibile evoluzione di emissioni e impatti sarà assai più limitata di quanto prospettato nella maggior parte delle analisi.

Il caso dell’Italia

Si tratta di un elemento di valutazione di tutto rilievo. Come si può leggere, con riferimento al caso dell’Italia, in un paper da poco pubblicato da Banca d’Italia: «Fatta eccezione per lo scenario estremo RCP8.5, le valutazioni economiche disponibili indicano che l’entità degli effetti dei cambiamenti climatici - rilevante in alcuni settori e aree geografiche - è trascurabile per il complesso del sistema economico italiano».

Nello stesso documento e nella Relazione annuale si evidenzia come, oltre a quelli “fisici”, occorra prestare attenzione anche al rischio di transizione che deriva direttamente dagli impegni presi dalla comunità internazionale. Una transizione non governata verso un’economia low-carbon potrebbe ridurre bruscamente il valore delle riserve energetiche e delle infrastrutture legate allo sfruttamento, la trasformazione e l’utilizzo dei combustibili fossili” oltre a far aumentare i prezzi dell’energia per imprese e famiglie.

A giudizio di Roger Pielke (Università del Colorado Boulder), lo scenario più plausibile è quello che porterebbe a un aumento di temperatura al 2100 inferiore ai 2,5 °C.

La sfida per riuscire a ridurre radicalmente le emissioni rimane molto difficile ma non impossibile come lo sarebbe qualora la traiettoria delle emissioni puntasse ancora decisamente verso l’alto. Per fare un paragone alpinistico, dobbiamo scalare il Monte Bianco e non il K2.

Forse è giunto il momento di lasciare alle nostre spalle sia il negazionismo di chi sostiene che il problema non esiste sia l’allarmismo di chi prefigura scenari apocalittici e, spesso, sembra scordarsi dei costi e dei rischi conseguenti all’adozione delle politiche di mitigazione. Le politiche climatiche dovrebbero avere come obiettivo quello di minimizzare la somma dei costi dei cambiamenti climatici e delle politiche di mitigazione e di adattamento. Pedro, adelante con juicio.

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