I servizi segreti esistono per fare cose che non possono avvenire in piena trasparenza, come liberare gli ostaggi sequestrati all’estero. Gli agenti dell’Aise, l’agenzia esterna, si muovono con tutta la flessibilità richiesta dal ruolo, nell’ambito del loro mandato e sotto la vigilanza di un comitato parlamentare. Ma dovrebbero svolgere servizi che restano, come dice il nome, segreti.

Con il governo Conte le cose sono molto cambiate, è caduta ogni barriera tra l’attività di intelligence e quella diplomatica, ma non è detto che sia una buona notizia.

Certo, siamo tutti contenti che i 18 pescatori di Mazara del Vallo siano stati liberati ieri in Libia, e non possiamo che rallegrarci del fatto che Silvia Romano sia ora in Italia dopo 18 mesi in mano a criminali somali. Però la contaminazione tra politica e intelligence non sta aumentando la trasparenza ma confonde invece compiti e responsabilità.

A maggio il premier e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio hanno accolto la ragazza in aeroporto, assieme ai vertici dei servizi, con tanto di foto celebrativa, dopo il quasi certo pagamento di un riscatto (cosa che, per la legge italiana, è un reato). Era la prima volta ma, abbiamo visto, non è stata l’ultima.

Non sappiamo se a causa di quelle foto, ma di sicuro dopo quelle foto, il generale Khalifa Haftar ha sfruttato la fine delle barriere tra servizi segreti e diplomazia palese: i 18 marinai siciliani erano a processo nel tribunale di Bengasi, nella zona governata da Haftar in un paese dove l’Italia riconosce un solo governo legittimo, quello di Tripoli guidato da Fayez al Serraj.

L’intelligence ha fatto il grosso del lavoro – come ha riconosciuto anche il presidente del Copasir, il comitato parlamentare di vigilanza, Raffaele Volpi – ma poi Haftar ha ottenuto dalla politica il prezzo (solo simbolico?) del riscatto: una trasferta di Conte e Di Maio a Bengasi, quasi una visita ufficiale, una legittimazione preziosa in questo momento per il generale libico che ha fallito nei suoi tentativi di conquistare il paese e ha deluso i suoi tanti alleati temporanei, dagli Stati Uniti alla Turchia, all’Egitto, alla Francia.  

Nel primo governo Conte, quando a complicare i rapporti con la Libia c’era l’attivismo del ministro dell’Interno Matteo Salvini, l’Italia ha prima ignorato Haftar, poi lo ha legittimato con la conferenza di Palermo del dicembre 2018 che doveva preludere a nuove elezioni nel paese e invece si è rivelata la vigilia di una nuova fase di guerra civile, con l’assedio (fallito) di Haftar a Tripoli.

Hafar è stato sostenuto a lungo dal presidente egiziano Al Sisi, a sua volta ricevuto con tutti gli onori dal presidente francese Emmanuel Macron mentre la procura di Roma chiedeva il processo per gli uomini del suo intelligence accusati dell’omicidio di Giulio Regeni. Un’altra vicenda nella quale troppi piani si sono sovrapposti, con la politica incapace di trovare una soluzione giusta difendere la memoria del giovane ricercatore ed efficace nel gestire i rapporti con i responsabili, egiziani e non solo, della sua morte.

Il fatto che la missione libica sia arrivata nel pieno di una potenziale crisi di governo, proprio quando al premier Conte serviva un chiaro successo da esibire, e alla vigilia di nomine importanti nei servizi segreti aggiunge un ulteriore livello di confusione a una materia così delicata.

L’immagine di Conte, almeno per un giorno, esce tonificata dalla vicenda dei pescatori, ma la capacità dell’Italia di gestire la sua area di influenza nordafricana si è ridotta ancora.

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