Quattro anni dopo, non chiudere l’ultima porta sull’Afghanistan

Nell’agosto di quattro anni fa l’Occidente abbandonava l’Afghanistan nel modo odioso che ben rammentiamo. Abbiamo ancora negli occhi le immagini delle persone attaccate ai velivoli in partenza, cadere giù appena dopo il decollo. Era la tragedia di un popolo intero, sedotto, illuso e poi abbandonato ai suoi demoni. Ancora oggi non sono noti i dettagli dell’accordo che gli americani fecero in Qatar con i talebani, visto che tutto fu trattato oralmente e con “pizzini” passati dal negoziatore americano Zalmay Khalilzad ai rappresentanti talebani e viceversa. Le diplomazie e gli alti gradi militari dei paesi alleati coinvolti (tra cui il nostro), restarono amaramente sorpresi del fatto che gli americani non avvisarono nessun alleato della loro decisione di andarsene (forse solo i britannici furono in qualche modo avvertiti in anticipo), provocando una situazione di panico generalizzato e di logistica improvvisata di cui si ebbe evidenza durante la caotica evacuazione dall’aeroporto di Kabul. Anche se la scelta di lasciare il paese era stata già presa durante il primo mandato dell’amministrazione Trump, le modalità adottate furono dovute all’amministrazione democratica Biden, a dimostrazione che gli americani non tengono in gran considerazione gli europei, qualunque sia il colore di chi sta alla Casa Bianca. Si trattò di un avvertimento che forse andava preso sul serio. L’aspetto più terribile fu l’abbandono degli afghani, e in particolare delle afghane a loro stesse cioè nelle mani di un regime assolutamente discriminatorio nei confronti delle donne. L’attentato all’aeroporto di Kabul durante il ritiro fu il segnale della presenza violenta dell’Isis-Khorasan nel paese, anche se va detto che da quattro anni a questa parte il paese è sostanzialmente in pace. Anche questo è un segnale da comprendere da parte occidentale: portare la guerra altrove con la pretesa di giustizia o di ragioni umanitarie non ristabilisce nessun diritto né offre soluzione alle crisi. Ogni volta che l’Occidente ha fatto la guerra ha lasciato le cose peggiori di come erano. La resistenza delle donne afgane, in barba ai talebani La triste eredità In quei terribili giorni un post di una ragazza afghana colpì i media: «Moriremo lentamente nella storia» disse piangendo nel suo video di addio, mentre le forze occidentali fuggivano vergognosamente. Le sue parole assomigliano a quelle di tutti gli abbandonati del nostro tempo, che non hanno quasi più la forza di gridare nell’osservare con disperazione coloro che avevano promesso salvezza allontanarsi senza voltarsi indietro. È la triste eredità che l’Occidente lascia ai paesi dove porta la guerra, cavie dei suoi esperimenti geopolitici falliti. Oggi si tratta perlomeno di accorgersi di quanto siano micidiali e fallaci le decisioni prese alla leggera, sulla base di rancori, calcolo o eccitazioni istintive. Tutto ciò che concerne l’Afghanistan fu una trappola di bugie: una guerra che non è mai piaciuta a nessuno dei governi che l’hanno fatta (nemmeno davvero agli Usa); un conflitto portato avanti in maniera riluttante e perché «dopo l’11 settembre bisognava pur fare qualcosa». L’ultimo km per le donne afghane: Fariba Hashimi nell’élite del ciclismo La speranza degli afghani Una guerra iniziata e subito dimenticata, perché c’erano altre urgenze come l’Iraq e così via. L’Occidente visse vent’anni di conflitto senza rammentare di stare in guerra, a parte ovviamente i militari. Ma gli afghani ci avevano sperato molto, ci credettero, soprattutto le minoranze come gli hazara, i giovani e le donne. Quelle silenziose lacrime della ragazza afghana con la treccia, sono ricordate ancora da qualcuno in Italia e in Europa: le poche Ong umanitarie che tentano una difficile presenza nel paese e la comunità di Sant’Egidio che rimane l’unica a continuare il faticoso impegno dei corridoi umanitari, cioè l’esfiltrazione di profughi e profughe afghani perduti tra Pakistan e Iran, in fuga dall’oppressione. Si tratta di un lavoro lento e arduo, con moltissimi ostacoli di ogni tipo, che fa onore a chi vi si dedica. Migliaia di richieste giungono a Sant’Egidio per situazioni disperate: i corridoi restano l’unica speranza di salvezza per tanti, un segnale che non sono abbandonati. Vanno aiutati e sostenuti perché non si chiuda anche quest’ultima porta.