Il fatto che la riforma del sistema pensionistico sia tema quasi ogni anno al centro di un acceso dibattito pubblico significa che non è sostenibile perché genera debito e non riesce a tutelare i pensionati attuali, le persone vicine alla pensione e chi si è affacciato da poco nel mercato del lavoro.

Questa verità è spesso nascosta dall’esigenza di individuare vie per rendere sostenibile il passaggio da lavoro e pensione, soprattutto per alcune categorie di lavoratori. Esigenza portata avanti quasi sempre al di fuori di una logica di solidarietà intergenerazionale.

Sullo sfondo c’è il timore di uno scontro generazionale tra chi è prossimo alla pensione o chi in pensione c’è già e i più giovani, che vedono la pensione come un miraggio tanto da aver rinunciato a lottare per questo, forse presi da problemi più contingenti.

Lo scontro generazionale (o almeno un forte dualismo) però, almeno nei dati, è una realtà. Il sistema pensionistico italiano funziona a ripartizione: la pensione di chi è pensionato è pagata con i contributi versati da chi sta lavorando. Se si rompe questo equilibrio il sistema non funziona più.

Le crepe sono già molte, con un numero di lavoratori che non cresce e un numero di pensionati che cresce, e con salari che non crescono e pensioni invece calcolate con il sistema retributivo che valgono più di molti salari dei più giovani.

Il futuro non è sostenibile. Eurostat calcola l’old-age dependency ratio, il rapporto tra le persone con più di 65 anni (per la maggior parte percettori di pensione) e le persone nella fascia 20-64 anni (che lavorano in parte e che quindi pagano le pensioni con i loro contributi). In Italia questo rapporto nel 2020 era circa del 40 per cento: meno di tre adulti in età lavorativa per ogni persona over 65.

Considerando che l’Italia ha un tasso di occupazione del 58 per cento, ossia 58 persone su 100 in età da lavoro che lavorano (di cui diversi part-time, contratti con bassi salari ecc.), è facile comprendere come si sia vicini ad un rapporto uno ad uno tra lavoratori effettivi e persone over 65. Ma il dato cresce notevolmente nelle proiezioni di Eurostat relative al 2050, superando il 70 per cento nella maggior parte delle regioni d’Italia, con le conseguenze che è facile immaginare.

La causa è il calo demografico unito all’aumento dell’aspettativa di vita media, un calo che è solo parzialmente compensato (ma con un saldo negativo) dai lavoratori stranieri.

Anche a fronte di una inversione, improbabile, del trend demografico sarebbe impossibile recuperare quanto già perso. Per questo è urgente individuare politiche che consentano di non tradurre in vuoti contributivi le transizioni occupazionali a cui oggi i giovani sono soggetti e occorre muoversi lungo più binari.

Uno di questi è tra gli argomenti che è quasi impossibile introdurre nel dibattito pubblico: la sostenibilità del lavoro anche in età matura. Bisogna individuare modalità che consentano ai lavoratori over 60 di continuare a lavorare, magari con orari ridotti ma con contribuzione piena.

Questo significa intervenire sull’organizzazione del lavoro, significa investire (e non invece temere) in tecnologie che alleggeriscano la fatica fisica del lavoro, significa consentire una vera evoluzione delle carriere dei lavoratori in modo che possano nella vita cambiare lavoro andando verso mansioni più sostenibili e conciliabili con l’età.

Le soluzioni alternative a questo radicale cambio di impostazione sono a breve termine e ad alto costo, e non farebbero che alimentare illusioni, oltre che tutelare diritti acquisiti sulle spalle delle generazioni più giovani. Generazioni che dovrebbero avere molta più volontà di incidere in questo dibattito.

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