«Finora abbiamo conseguito risultati molto importanti, superiori a quelli della Germania e della Francia, i mercati hanno premiato le nostre scelte, lo spread è basso, i dati sull’occupazione sono ottimi, il Pil nel primo semestre ha sorpreso tutti gli analisti, l’andamento delle entrate fiscali è positivo». Lo ha detto Giorgia Meloni al Consiglio dei ministri. È soddisfatta dei primi 10 mesi del governo, anche se raccomanda ai ministri di mandar conti austeri e proposte rigorose per il bilancio in preparazione. È previsto un autunno difficile per crescita e finanza pubblica: è vero che il governo Meloni si è messo sulla buona strada? Guardiamo ai fatti citati dalla premier.

Circa gli «ottimi dati sull’occupazione», Domani ha già pubblicato (31 agosto) un fact-checking di Massimo Taddei: il miglioramento dell’occupazione è evidente, ma data da prima del governo Meloni (e due giorni dopo il CdM è risultato che da giugno a luglio gli occupati son diminuiti). Migliora anche la qualità dell’occupazione: più a tempo indeterminato, più giovani e più donne. Ma il mercato del lavoro deve colmare un grande gap rispetto a quello dei maggiori Paesi europei. Il tasso di occupazione è molto più basso di quelli di Francia e Germania, quello di disoccupazione più alto.

Ancor più brutto è il tasso di partecipazione, cioè del rapporto fra chi lavora o cerca lavoro e la popolazione in età lavorativa: fra i 15 e i 64 anni ben 1/3 degli italiani non cerca nemmeno lavoro, in Germania 1/5 e in Francia 1/4. Il problema è soprattutto la scarsa partecipazione delle donne. Se il governo vuole dati davvero “ottimi”, deve dunque affrontare riforme strutturali e organizzative, tenere insieme questioni di cultura, formazione e diritti e andar oltre le istanze distributive.

Il secondo trimestre

La questione è analoga se si guarda la crescita del Pil. È vero che nei primi mesi dell’anno stavamo crescendo due volte più svelti della Germania e più di un punto percentuale più della Francia: ma era dal 2021 che il rimbalzo post-pandemico della crescita italiana è stato il più brillante. Purtroppo, meno di quattro giorni dopo il discorso di Meloni, sono arrivati i dati sul secondo trimestre: il Pil è diminuito rispetto al primo e facciamo peggio della Germania e Francia.

Inoltre, le previsioni della Commissione per il 2024 ci vedono crescere meno di entrambe e con più inflazione. La vera questione è che nei primi vent’anni del secolo siamo cresciuti in media di un punto in meno di Francia e Germania ogni anno. La nostra carenza di crescita è strutturale e di lungo periodo. Se il governo non corregge le sue radici, perderà la partita. Hanno ragione, gli esponenti della maggioranza, di dire che hanno altri 4 anni prima della fine della legislatura: ma devono cominciare subito a favorire la concorrenza e aumentare la produttività, migliorare la scuola e la formazione al lavoro, creare l’ambiente necessario a stimolare – non solo a finanziare – la ricerca, trasformare la pubblica amministrazione da freno ad aiuto della crescita.

Quando Meloni dice, nel suo discorso, che «dobbiamo fare quello che ci hanno chiesto i cittadini», va evitato l’equivoco: quasi tutti chiedono di crescere più svelto, di stare meglio. Ma questi sono obiettivi. Pochissimi cittadini chiedono le dure riforme strutturali che servono per raggiungerli, il rigiro di posti di lavoro necessario per collocare gli occupati in modo più produttivo e lo sforzo collettivo di mettersi in grado di coprire quelli innovativi. È triste che nel discorso della premier non si menzioni nemmeno il Pnrr, che avrebbe dovuto essere la strada per crescere nel modo giusto.

C’è poi il problema del debito pubblico, che Meloni tocca solo per dire che «lo spread è basso». Il confronto internazionale del rapporto fra debito e Pil è notoriamente sfavorevole: 30 punti più della Francia e 75 più della Germania. Dovremo ridurlo, senza sacrificare troppo il Pil. Il disavanzo, che alimenta il debito, è doppio di quello tedesco e solo leggermente inferiore a quello, preoccupante, della Francia. Ma la «tragedia contabile», come la chiama la premier, del 110 per cento e consimili sussidi, complica la contabilità.

Eurostat ci ha chiesto di contabilizzare il relativo minor gettito fiscale nell’anno della concessione del credito anziché in quello in cui esso si manifesterà per cassa. Il risultato è un accumulo del disavanzo nel 2022, anziché nel 2023-4. Il disavanzo di questi anni andrebbe dunque giudicato tenendo conto del favore contabile che riceve: le cifre non sono molto diverse da quelle previste da Draghi, ma questo è possibile spendendo parecchio più di quanto prevedeva il suo budget.

Inoltre, il minor gettito dovuto al superbonus, rischia di rendere il fabbisogno di cassa del Tesoro ben più alto del disavanzo di pertinenza dell’anno in corso e del successivo. Ed è il fabbisogno che va finanziato con emissione di titoli e preme sullo spread. È vero che «l’andamento delle entrate fiscali è positivo»? Nei primi sei mesi di quest’anno, rispetto a quelli del 2022, sono cresciute in una percentuale fra l’1,9 per cento e il 3,3 per cento, a seconda di come si tiene conto di disomogeneità fra i conti dei due semestri. Ma il reddito nazionale è cresciuto molto di più (circa 6 per cento di inflazione e 1,3 per cento Pil reale): quindi la quota del reddito versata in imposte è calata nettamente.

Gli analisti, per dirla con la premier, non sono “sorpresi”: non si fa che parlare di ridurre le tasse e perdonare chi non le paga. Si è ridotto di più del 10 per cento anche il «gettito derivante dalle attività di accertamento e controllo» con le quali si cerca di contenere l’evasione. È vero che «lo spread è basso»? È indubbiamente diminuito nei dieci mesi di vita del governo (da 221 punti rispetto al tasso a 10 anni tedesco, a 132 di fine agosto), mentre era notevolmente aumentato durante il governo Draghi.

Rimane però il più alto dell’eurozona e ha superato quello della Grecia di ben 32 punti, nonostante il debito/Pil greco sia maggiore. Soprattutto, rimane una delle variabili che turbano i sonni della finanza internazionale: se mostrassimo incertezze nel contenere l’indebitamento, lo spread scatterebbe e si autoalimenterebbe con la speculazione. Non è più compresso dal quantitative easing, anche se gli vien riservato ancora un occhio di riguardo nel rinnovo dei titoli in scadenza della Bce.

 

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