Sono personalmente affezionato alle primarie. Esse effettivamente furono un istituto e persino un mito identitario dell’Ulivo. Che resta pur sempre il soggetto e il progetto grazie al quale si devono traguardi di rilievo: uno dei governi migliori della storia repubblicana, quello del Prodi I (si pensi alla qualità dei suoi ministri, tra i quali tre presidenti della Repubblica: Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, Sergio Mattarella); una delle due sole vittorie del centrosinistra sul centrodestra a guida Berlusconi; l’ascesa della sinistra intera a responsabilità di governo dopo quasi mezzo secolo.

Oggi da più parti si avanzano critiche per l’asserito abbandono delle primarie da parte del Pd. Non merita replicare a tali critiche quando esse si levano da destra, che mai vi ha fatto ricorso.

Merita invece operare una precisazione concettuale e lessicale: si parla impropriamente di primarie anche a proposito del leader Pd espresso attraverso una consultazione aperta a elettori e simpatizzanti. Oltre il perimetro degli iscritti al partito. In senso proprio le primarie sono altro ovvero la designazione, grazie a elezioni aperte, del candidato a cariche monocratiche da parte di partiti o coalizioni di partiti.

Il quadro è cambiato

A mio avviso, non è buona cosa abbandonare quello strumento o anche derubricarlo con la motivazione secondo la quale vi si ricorrerebbe “solo quando serve”. Esso è di per sé uno strumento di partecipazione utile a cementare l’unità di una coalizione e a rafforzare il candidato alla relativa carica monocratica.

Giova tuttavia considerare la logica sottesa al modello nel quale le primarie furono pensate. Un quadro concettuale e pratico oggi sensibilmente cambiato. Esse furono ideate al tempo in cui si confidava nello sviluppo di un bipolarismo civile e di una democrazia maggioritaria. Quando cioè intorno alla contesa tra Silvio Berlusconi e Romano Prodi, propiziata dalla legge elettorale di impianto maggioritario (il Mattarellum), si faceva conto di approdare a uno stabile bipolarismo.

È innegabile che il quadro sia mutato: la legge elettorale vigente non è più quella di allora e il panorama politico si è decisamente frammentato. Le primarie di allora presupponevano coalizioni che si impegnassero formalmente, con tanto di regolamento, a rispettarne l’esito, ma soprattutto a concordare le essenziali linee portanti di un programma di governo. Solo con variazioni sul tema (comune) da parte di ciascun candidato.

Oggi il Pd non dispone di partner disponibili a sottoscrivere tale vincolo. A cominciare dal M5s che si tiene le mani libere in una logica particolaristica non immune da opportunismo. Intendiamoci: è legittima e aperta la competizione per guidare il campo progressista, ma chi vi aspira deve mostrare di eccellere nel coniugare spirito competitivo con tensione/responsabilità unitaria.

Fa bene il Pd, partito con vocazione coalizionale, ad adoperarsi per fare intendere ai suoi virtuali alleati che, senza la condivisione di una visione del paese, la prospettiva di dare corpo a un’alternativa vincente si fa oltremodo difficile. Un lavoro politico senz’altro da svolgere, ma che deve fare i conti con la realtà.

I conti con la realtà

Non si può illuministicamente pretendere che il Pd, in nome della ipostatizzazione di un modello, rinunci a stringere le alleanze possibili senza le quali neppure ci sarebbe competizione. Facile sentenziare contro l’incoerenza con il mito delle primarie, più difficile suggerire come conciliarle con le nuove coordinate.

Dei peccati di omissione del Pd, mi preoccupa di più la timidezza dei suoi vertici nel contrastare la sindrome dei suoi cacicchi in scadenza – sindaci o presidenti di regione – ovvero la loro pretesa di derogare al limite dei mandati o di designare essi stessi il proprio successore o infine di sgomitare per la candidatura al parlamento europeo. Responsabilità e generosità sono virtù richieste a partiti e singoli politici.

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