La crisi non aveva una vera ragione, certamente non la aveva dal punto di vista dei partiti di maggioranza. Il governo gode di un consenso non scontato, se si considerano i normali cicli dell’opinione pubblica italiana e la durezza della fase storica. Il premier ha una buona reputazione presso l’elettorato, in particolare tra gli elettori dei partiti di maggioranza, ma anche tra una certa quota di indecisi.

Che piaccia o no, anche da comparazioni internazionali emerge che il giudizio dell’opinione pubblica sulla gestione dell’emergenza sia sanitaria che economica è confortante, per il governo in carica.

L’unica cosa che Conte avrebbe potuto concedere (e che alla fine potrebbe davvero concedere) ai partiti, al di là delle forme, era un rimpasto. Farsi dire, cioè, da chi vogliono essere rappresentati, prendendo atto che si erano regolati male nell’amministrare le posizioni ministeriali a loro disposizione all’inizio dell’avventura governativa, quando forse ritenevano che il suo secondo governo sarebbe stato una scialuppa temporanea.

Se Matteo Renzi fosse veramente determinato ad andare in fondo, l’unica alternativa sarebbero le elezioni. Non sarebbero drammatiche nemmeno per i leader di Pd e Cinque stelle. Sarebbe meglio per loro sottoporsi subito al voto dei cittadini che essere logorati da Renzi per altri due anni, dopo avergli consegnato lo scalpo di Conte.

Non è detto però che Zingaretti e Di Maio avrebbero il coraggio di staccare la spina. O almeno, su questo scommetteva Renzi quando ha alzato la voce dicendo che sarebbe andato fino in fondo.

La parola fine alla sceneggiata pare l’abbia messa, ancora una volta, l’inquilino del Quirinale. Mattarella ha con tutta probabilità chiarito a Renzi che avrebbe usato tutti i suoi poteri, come aveva già fatto al momento della formazione del Conte 1 e 2, seppure in circostanze e con obiettivi parzialmente diversi. Quello chiave si chiama potere di scioglimento. Prima ancora che altri potessero avere tentennamenti, avrebbe fatto quanto aveva dato a intendere da tempo.

Gli avrà forse anche chiarito che solo nel quadro della continuità del governo Conte sarà possibile tenere in considerazione le sue ambizioni sulla segreteria generale della Nato. Soddisfare le altre richieste di Renzi non è difficile.

La questione apparentemente più problematica, la supervisione dei servizi di intelligence, potrebbe rimane sostanzialmente inalterata, cioè nelle mani di un soggetto non immediatamente riferibile a nessuno dei partiti della coalizione che risponde solo al premier e di cui è garante in ultima istanza il Quirinale.

Come dimostra la sequenza di presidenti con storie politiche e personalità diverse, il ruolo politico del capo dello Stato è – in sé stesso – in Italia più influente che in molte altre democrazie parlamentari, comprese alcune di quelle che prevedono la sua elezione con voto popolare.

Questo è l’equilibrio disegnato, consapevolmente o meno, dai costituenti: un premier debole e un presidente forte. Tanto più forte, quanto più le maggioranze parlamentari sono fragili e i leader dei partiti che le orientano sono inconcludenti. Questa è la ragione per cui i politici più navigati del centrosinistra hanno sempre preferito arrivare male alle elezioni popolari pur di scegliere l’inquilino del Quirinale.

Sergio Mattarella fu scelto con il consenso di Renzi perché ci si aspettava mantenesse un profilo politicamente più neutrale rispetto ai predecessori. In effetti Mattarella è uno dei presidenti più schivi e riservati della storia repubblicana. Potrebbe essere l’unico ad aver accompagnato lo stesso primo ministro, di sua fiducia, per una intera legislatura.

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