Da tempo i Cinque stelle girano intorno a un problema nominalistico inconsistente eretto a questione identitaria.  Per chi fa il mio mestiere, qualsiasi organizzazione che si presenta ripetutamente con uno stesso marchio alle elezioni per conquistare cariche elettive e influire quindi sul corso delle politiche pubbliche è un partito.

I movimenti sono un’altra cosa. Non si presentano alle elezioni e non devono selezionare candidati. Proprio per questo, non hanno bisogno di regole e gerarchie, possono far sentire tutti partecipi e uguali, anche quando si limitano ad applaudire un leader o ripetere il mantra che ha loro insegnato. I partiti no. Devono darsi un programma, regolare la competizione per acquisire ruoli interni e incarichi elettivi, darsi una disciplina per coordinare gli eletti se vogliono raggiungere almeno una parte degli obiettivi promessi ai cittadini. In altri termini, la “natura” delle organizzazioni politiche è determinata dalla funzione che svolgono.

Resta solo il limite ai mandati

I Cinque stelle non sono diventati un partito adesso, con gli Stati generali, ma nel momento in cui hanno deciso di presentare liste per il parlamento. Continueranno a dire che sono diversi, come qualsiasi partito del resto, rievocando il mito fondativo dell’uno vale uno. Ma per ora l’unico elemento distintivo che continua realmente a differenziarli è il limite dei mandati. Non la restituzione delle indennità, perché il cospicuo alleggerimento del reddito personale per la causa era già una pratica santificata nel Pci. Non i tavoli tematici, perché quelli si fanno anche alla Leopolda di Matteo Renzi. Non la leadership collegiale, perché c’era anche nella Democrazia cristiana. Di certo non le “novità” appena annunciate: una organizzazione giovanile, scuole di formazione politica, sedi diffuse nel territorio.

Il limite ai mandati non è comunque una differenza da poco. Al momento della fondazione fu introdotta una norma simile nello statuto del Pd, concepita in modo che le deroghe fossero una rara eccezione, ma è stata sistematicamente disattesa e poi esplicitamente modificata perché stava stretta ai politici di professione.

Nel breve termine, potrebbe peraltro risolvere un problema oggettivo dei Cinque stelle: la fragilità della classe politica locale. Se alcuni dei portavoce più navigati, dopo due mandati in parlamento avessero come sbocco obbligato le amministrative, in quanto unica deroga ammessa, potrebbero sopperire a quel deficit. Mentre difficilmente la circolazione delle élite indotta dal limite dei mandati risolverà un altro deficit: quello di una classe politica sproporzionatamente meridionale, sia tra le prime che tra le ultime file.

Stabili nel centrosinistra

Al di sotto del dilemma inesistente movimento/partito c’è un conflitto abbastanza convenzionale: quello tra l’attuale coalizione dominante e gli emarginati, divenuti oppositori interni. Chi ha ottenuto incarichi ed esercitato ruoli di governo tende a vedere il bicchiere mezzo pieno, sottolinea l’importanza degli obiettivi raggiunti, è più ottimista sul futuro. Chi è stato ridimensionato cerca una rivincita denunciando il bicchiere mezzo vuoto.

La soluzione sarà una direzione collegiale, con o senza Alessandro Di Battista, in cui Luigi Di Maio, presente o meno, continuerà ad essere capofila.

Ma la linea politica è decisa. I 5 Stelle si sono compiutamente riallineati verso il centrosinistra, come il loro residuo elettorato, ritornando alle origini.

Le principali “tesi programmatiche” enunciate da Vito Crimi e poi ripetute più volte, sarebbero quasi tutte sottoscrivibili (e raccontate più o meno nello stesso modo) da qualsiasi bravo segretario regionale del Pd: salvaguardia dell’ambiente, sanità pubblica, protezione sociale, interventi redistributivi - come il reddito di cittadinanza provvidenziale durante la pandemia, da correggere ora con politiche attive di reinserimento - che però non vadano a danno delle imprese, soprattutto piccole e medie, da aiutate con sgravi fiscali e incentivi per l’innovazione, nel quadro di una forte iniziativa dell’Unione Europea (che è la nostra casa).

Sarebbe simile anche l’enfasi sulla necessità di “continuare a essere forza di governo”. Forse anche la richiesta di un riaccentramento in capo alla stato della sanità, oggi richiesto dai Cinque stelle che lo avevano contrastato in occasione del referendum costituzionale del 2016.

Fico è l’unico a dirlo esplicitamente. Tutti gli altri non dicono niente che nel merito lo contraddica. Il “No assoluto a qualsiasi alleanza” diventa “No ad alleanze strutturali”, cioè un sì alle coalizioni con altri partiti …. purché non gli attuali di centrodestra! Ma l’alternativa a una alleanza con il Pd sarebbe isolarsi e regalare il governo proprio a loro.

Conte e Zingaretti stanno sereni

Giuseppe Conte può quindi stare (sul serio) sereno a Palazzo Chigi, almeno fino a quando i governisti manterranno una posizione dominante nel partito. La scelta della direzione collegiale coincide con l’inevitabile rinuncia a proporre un proprio leader alla guida del governo. Costituisce la presa d’atto che quella ambizione è tramontata.

Il segretario del Pd Nicola Zingaretti può stare altrettanto sereno. La sua scommessa di fare dei Cinque Stelle un partner potabile ha avuto successo.

Che l’equilibrio regga oltre la pandemia e l’attuale legislatura è tutto da vedere, perché nel frattempo le correnti si saranno strutturate e il conflitto su liste, alleanze e leadership diventerà ancora più acuto.

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